Ha cercato di far passare le donne vittime della sua violenza “per ragazze disinvolte e pronte a vendersi, mentitrici, volontarie assuntrici di sostanze da sballo, assetate di profitti, occasioni di lavoro”. Sono le motivazioni della sentenza con cui, il 5 giugno scorso, la Corte d’Appello di Milano ha condannato a 9 anni di reclusione Antonio Di Fazio. L’ormai ex imprenditore farmaceutico, imputato per sei episodi di abusi sessuali, commessi su altrettante donne attraverso l’uso di benzodiazepine, ha “svolto fino alla fine una difesa mirante a denigrare le sue vittime“, si legge nelle motivazioni della sentenza. Di Fazio è stato arrestato nel maggio 2021 per aver narcotizzato, fotografato e violentato una studentessa 21enne attirata nel suo appartamento con la scusa di uno stage.

“Non c’è nulla di autentico nella sua contrizione, che risulta piuttosto scelta strategica per ottenere un più benevolo giudizio – scrive la Corte presieduta da Valeria De Risi, facendo riferimento alla “presunta resipiscenza” di Di Fazio -. Di fatto egli continua a denigrare e trattare le sue vittime come oggetti privi di morale e di dignità“. In appello la pena era stata ridotta dai 15 anni e mezzo in abbreviato del primo grado a 9 anni per una ragione tecnica: il gup non aveva riconosciuto l’istituto giuridico del “vincolo di continuazione”. “Tutti i reati ascritti per cui si è motivata la colpevolezza – si legge ancora – risultano commessi in rapida sequenza temporale tra loro, con le medesime modalità esecutive e avvalendosi della medesima originaria organizzazione”. Di Fazio era finito in carcere nell’inchiesta dei carabinieri coordinata dal pm Alessia Menegazzo.

In appello, Di Fazio è stato assolto dal reato di sequestro di persona nei confronti della studentessa ed è intervenuta la prescrizioneper stalking, maltrattamenti e violenza sessuale ai danni dell’ex moglie. L’ex imprenditore farmaceutico, 52 anni, è anche accusato di bancarotta in un altro procedimento. Scrive la Corte, “aveva messo a punto un sistema criminale idoneo a far cadere nella sua rete numerose vittime, per lo più giovanissime donne irretite dalle sue promesse, dai suoi contatti, dalla esibizione delle sue possibilità economiche (vere o fasulle che fossero), dal suo patrimonio immobiliare, rassicurate dalla sua famiglia (madre, sorella, figlio), pronte ad accoglierle in un contesto apparentemente normale ma agiato e promettente”. È riuscito “a ripetere il suo modello criminale con medesime modalità esecutive” ai danni delle vittime, “di cui solo sei sono emerse con compiute generalità e sono costituite parte civile nel processo, altre sono rimaste ignote, ma di esse v’è tracce nelle ulteriori numerose fotografie rinvenute nel suo cellulare“.

E ancora: “Non esistevano cene di lavoro, né stage, né necessità aziendali; mai le ragazze hanno partecipato a occasioni in cui potessero svolgere la prestazione convenuta o anche una sola giornata di stage aziendale: era tutto fasullo, solo un mezzo per adescarle”. Di Fazio, spiegano ancora i giudici, “si era ben corredato, con la verosimile ma non provata complicità della sorella medico, di prescrizioni” per le benzodiazepine. Si presentava pure come “personaggio di spicco ma anche temibile (millantati i suoi contatti con vertici di dirigenza sanitaria, ma anche con la mafia, esibite le armi, condivisi gli incontri con personaggi rumeni non meglio identificati che detenevano borse con danaro contante)”. Anche se ha risarcito la studentessa, Di Fazio non ha “affatto riconosciuto né la commissione di reati, né il disvalore delle sue condotte, e neppure” ha iniziato “un serio percorso riabilitativo”.

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