C’è un momento in cui l’identificazione fra un club e i suoi tifosi diventa totale e totalizzante. E si consuma durante l’annuncio di un nuovo colpo di mercato. Perché ogni grande acquisto assomiglia molto a un regalo calato dall’alto da parte dei presidenti, a una carta ottriata concessa dai sovrani del pallone. E come tale deve essere festeggiato. Nei bar. Nelle piazze. Ma soprattutto negli aeroporti. L’usanza di dare il benvenuto a un giocatore radunandosi in uno scalo aereo è molto più antica di quanto si possa pensare. Si diffonde prima della televisione, viaggia veloce sulle onde radio. La prima volta che la tifoseria di un club riempie un aeroporto è il 6 agosto del 1953. Ma non per dare il benvenuto a una faccia nuova, quanto per urlare il bentornato a una ventina di facce conosciute. La Roma è appena rientrata da una tournée in Venezuela. Ha giocato un quadrangolare amichevole ed è arrivata seconda, perdendo solo contro il Corinthians. Così ora i tifosi vogliono riabbracciare i loro beniamini. A Ciampino si presentano a centinaia. Cantando. Battendo le mani. È l’atto di nascita di una tradizione che nei successivi settant’anni diventerà particolarmente feconda nella Capitale. Anche se con fortune decisamente alterne.
Il bagno di folla che cambia la storia del club avviene il 10 agosto 1980. All’Aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino si presentano in tremila. Sono arrivati con pullman, auto e moto. Qualcuno addirittura in bicicletta. È una massa palpitante e ansiosa. Perché tutti sono consapevoli di ciò che sta per succedere. Un volo dell’Alitalia sta portando a Roma Paulo Roberto Falcao, quello che poco dopo diventerà l’ottavo re della capitale. Allo scalo succede di tutto. La Stampa racconta di “fischi, canti, urla di donne spintonate, sguardi preoccupati dei turisti in transito, pianto di bambini, sirene della polizia e richiami pressanti della direzione aeroportuale, inutilmente tesa al recupero del personale che all’arrivo dell’idolo aveva abbandonato in massa il lavoro sulla pista”. Secondo il Corriere un trattorino bardato da un gigantesco striscione con scritto Falcao aveva agganciato il jumbo per portarlo davanti alla scaletta. Solo che nella foga ha sbagliato aereo. “Questa accoglienza ha dell’incredibile” dice il brasiliano. Ed è vero. Tutto intorno a lui la gente sventola bandiere, sciarpe e berretti. “Volevo solo far vedere il fenomeno al pupo” confida qualcuno indicando un bambino. È l’inizio di una storia d’amore che troverà il suo culmine nello scudetto e che comincerà ad andare in pezzi dopo la Coppa dei Campioni persa all’Olimpico contro il Liverpool.
Otto anni più tardi di voli i tifosi della Roma devono seguirne addirittura due. Prima un aereo deposita a Fiumicino il nuovo fenomeno giallorosso, poi un elicottero lo porta direttamente a Trigoria. Quando esce dal velivolo la punta ha la maglia rossa della Roma con il numero sette sulle spalle. Si chiama Renato Portaluppi. E si dice che sia il miglior giocatore del Brasile. La sua fama lo precede. E non tanto per quello che riesce a combinare in campo. Chi lo conosce lo racconta come uno non in grado di resistere al richiamo delle donne, delle discoteche, delle feste fino a tarda ora. Ma Renato ha anche qualche difetto. I tifosi che si sono arrampicati sulle recinzioni di Trigoria per vedere il loro nuovo idolo se ne accorgono presto. In campo è impalpabile. In campionato gioca una ventina di partite senza segnare. Mai. Fino a quando sugli spalti non compare lo striscione: “A Renato, ridacce Cochi”. Secondo Dino Viola il brasiliano era forte “quanto Maradona“. Ma quello che doveva essere il botto della sua campagna acquisti farà addirittura meno rumore di un mortaretto.
Il 23 agosto del 2007, dopo un’estenuante trattativa con il Real Madrid, Cicinho è finalmente giallorosso. Ad aspettarlo a Fiumicino ci sono circa 500 tifosi che gridano come allo stadio. “Sono rimasto stupito dalla folla che mi attendeva all’aeroporto” dice l’esterno brasiliano, che poi aggiunge: “Sarei stato felice di restare a Madrid, ma non contavano su di me”. Non è l’inizio che tutti si aspettavano, ma è pur sempre qualcosa. Rosella Sensi è raggiante: “Molte squadre volevano Cicinho, ma se lui ha deciso di venire alla Roma vuol dire che abbiamo qualcosa in più – dice in una radio locale – Sono contenta per tutti i tifosi se lo meritano”. Solo che il rendimento di Cicinho non decolla. L’esterno sembra soffrire il calcio più fisico che si gioca in Italia. Così presto finisce ai margini del progetto. E la sua vita prende una piega imprevista. “Meno giocavo e più bevevo. Ma non solo un bicchiere o due, bevevo fino a crollare in terra. Una volta dopo 14 caipirinhe e 18 birre ho visto Gesù Cristo così mi sono avvicinato a Dio – racconterà qualche anno dopo a Espn Brasil – Se continui così morirai, mi ha detto lo psicologo del San Paolo nel 2010. E per questo sono arrivato al punto di fare dieci assicurazioni sulla vita in favore dei miei familiari“.
Tre anni più tardi la Roma ha bisogno di un attaccante di livello. Ma il budget a disposizione è piuttosto limitato. Serve un’idea. E anche alla svelta. Qualcuno butta lì un nome: Adriano. I fasti dell’Inter sono ormai alle spalle, ma se recuperato il brasiliano può ancora fare la differenza. D’altra parte ha solo 28 anni. Il 7 giugno Adriano arriva a Fiumicino. Ad aspettarlo però non c’è nessuno. Nel vero senso della parola. Qualcuno spiega l’assenza di tifosi con la decisione dell’attaccante di anticipare il suo arrivo. Nelle radio però non si parla d’altro che del suo ingaggio. L’entusiasmo è alle stelle. Tanto che la società decide di presentare il suo attaccante al Flaminio. E stavolta di tifosi se ne presentano a migliaia. Il brasiliano sembra pingue e imbolsito, esibisce una sciarpa giallorossa con scritto “Mo te gonfio”, calcia palloni verso gli spalti, promette di prendersi la città. La sua avventura dura solo 8 partite. Poi la Roma e il giocatore decidono di rescindere l’accordo triennale che li aveva legati insieme.
L’ultima grande ressa all’aeroporto è datata 6 agosto 2015. Un aereo atterra a Fiumicino con circa dieci minuti di anticipo. Non fa niente, perché fuori ci sono tremila tifosi festanti. Aspettano tutti Edin Dzeko, l’attaccante bosniaco con il fisico da pivot e i piedi da trequartista. Prima di infilare l’uscita secondaria la punta si presenta davanti al suo popolo. Ha un enorme sorriso stampato sulle labbra e una sciarpa giallorossa intorno al collo. “Forza Roma!” grida per poi scomparire a bordo di un’auto. Dzeko sembra l’uomo in grado di portare lo scudetto nella capitale. Non ci riuscirà, ma contribuirà a portare i giallorossi in semifinale di Champions League. La sua storia d’amore con la città dura sei anni, fra grandi delusioni (nella sua prima stagione sbaglia gol che sembrano semplicissimi, realizzando appena 8 reti) e picchi sontuosi, arrivando a vincere il titolo di capocannoniere. Un traguardo che i tifosi riuniti oggi a Ciampino sperano di veder raggiunto anche da Lukaku.