La saga dei contadini e operai Ughetto: dalle pendici del Monviso di inizio Novecento alla Francia occupata. Manodopera – Interdit aux chiens et aux italiens di Alain Ughetto è una trascinante storia di radici italiane in sfavillante e rigorosissima stop motion. Niente Straub e Huillet a catechizzare con Vittorini sotto braccio, ma una affettuosa, delicata e poetica escursione del regista francese nel proprio lontano ricordo familiare.
Dal paese di Ughettera nella montagna piemontese nonno Luigi e nonna Cesira vivono la fame, le guerre (Libia e Prima guerra mondiale), la migrazione, fuggono dal fascismo in Francia, subiscono lo stato di macaronì, costruiscono la loro casetta (Paradiso) in collina, vengono bombardati dagli aerei italiani, mettono al mondo figli su figli che a loro volta mettono al mondo nipoti su nipoti. Alain è uno di questi. E con cartoncino, colla, plastilina (i pupazzetti adulti sono alti 23 centimetri), forbici e matita ha ridato vita ai suoi comunissimi antenati, infilando docilmente le sue manine perfino in scena, dentro al passato, dialogando fantasticamente con loro o passandogli in mano una piccozza.
Così dopo un’apertura dove il Monviso è il vero Monviso, le vecchissime disabitate e distrutte abitazioni degli Ughetto in Piemonte sono le loro vere distrutte abitazioni di fine secolo, ecco spianare la scena per la ricostruzione animata di cinquant’anni di legami familiari. Scorrono fondali perlopiù di montagna e interni di povere case contadine, luoghi di lavoro e teatri di guerra, piccoli oggetti da lavoro, trenini e macchinine di latta, esiziali cibarie da dividere in troppe porzioni, ma sempre accompagnati da una disincantata malinconica vena di umoristica nostalgia. Sbaglia chi – non ce ne abbia Ughetto e i solerti produttori/distributori – ma a noi Manodopera è sembrato soprattutto un film umanista, profondamente olmiano, più che la solita sbandierata manfrina a tema razzismo (vedi alla voce: lo straniero un giorno è l’altro da te, il giorno dopo puoi essere tu). Gli Ughetto fanno saga universale a sé.
La saga della miseria e della dignità, della fatica e della sopravvivenza. E in sottofondo corre epico e profondo una sorta di sentimento intramontabile che lega questi due signori di una volta, Luigi e Cesira, di quelli che appaiono come fulminati dall’obiettivo nelle foto seppiate, che si tengono per mano nonostante tutto. E poi Manodopera ha un ulteriore pregio: dura un’ora e otto minuti. Quasi un mediometraggio. Eppure dentro pulsa una prolungato rispetto per la vita di chi si è spaccato la schiena senza un fiato (tantissimi gli operai italiani che costruirono dighe e tunnel in Francia) e si prolunga all’infinito il profumo acre della terra degli avi (anche questa vera, raccolta con le mani, e messa dal regista stesso in una scatoletta). La voce di Cesira è di Ariane Ascaride. In sala dal 31 agosto. Da vedere ripensando a Wallace, Gromit e Jan Svankmajer.