Cinema

Al Festival di Venezia, il Dogman di Luc Besson commuove fino alle lacrime

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. Ci voleva il redivivo regista francese Luc Besson per spararci una siringata di adrenalina e a farci piangere come fontane. Dogman, in Concorso a Venezia 80, non va affatto confuso con l’omonimo film di Matteo Garrone del 2018. Altra idea canina (per il regista romano un corollario quasi metafisico, qui simbolo centrale di giustizia e bontà tra esseri viventi), ma stessa spinta poetica ad un controllo personale e totale dell’opera filmica. Dogman inizia con foga da thriller con possibile serial killer. Falsa pista intuitiva per capire chi è quel tizio sinistro, ferito, emaciato e travestito da Marilyn (Caleb Landry Jones) che in una notte di pioggia nel New Jersey guida un camion pieno di cani e viene arrestato dalla polizia. A dirimere l’identità dell’uomo arriva la psichiatra Evelyn (Jojo. T Gibbs) che ha qualche problemino a casa con l’ex marito stalker. Il confronto in cella tra i due apre ai lunghi flashback che spiegano chi sia Douglas, ora ripulito da trucco e sporcizia. Gettato da bimbo per punizione, e il troppo amore per i cani, dall’orrido e violento padre nella gabbia in cortile, dove il genitore tiene in uno stato ripugnante decine di bestiole, Douglas dopo molte settimane riesce ad evadere, a vendicarsi, e a ricostruirsi una vita in solitaria assieme a decine e decine di cani che lo proteggono e lo adorano.

Il ragazzo però per via della violenza del padre è finito su una sedia a rotelle e non può rimanere in piedi se non per pochi minuti con il rischio di una lesione mortale al midollo spinale. Personaggio borderline, freak frankensteinano più Edward mani di forbice che Joker di Phoenix (indossa tutori rigidissimi alle gambe), sorta di giustiziere alla Robin Hood (“aiuto gli altri e gli altri aiutano me”), Douglas sbarca il lunario una sera a settimana cantando truccato da donna in un locale di drag queen. Intanto in questo vecchio edificio abbandonato dove vive nel meticciato canino di ogni razza e taglia, il ragazzo si dovrà attrezzare tra trappole, armi e assalti animali contro loschi figuri e gang di criminali a cui ha pestato i piedi e che vogliono farlo fuori. “I cani hanno tutte virtù, nessuno vizio, e un unico difetto: si fidano degli uomini”, spiega Douglas alla psichiatra.

Dogman è quindi un brulicante, claustrofobico, indiavolato film d’azione, zeppo di violenza (non sui cani, anzi) e sangue, ma con un cuore dolce che riscalda l’anima degli ultimi e dei reietti, e una visione politica dirompente e vendicativa dal basso verso l’alto. Besson, che il film l’ha anche scritto, fa sfoggio, con buona pace di Serge Daney, di una tecnica sopraffina a livello compositivo e ritmico che trascina come ai bei tempi di Leon e Nikita. Oltretutto, non pago dell’andamento rapido dal racconto, di una perfetta atmosfera da B movie all’americana (il film è girato in OSVP, ovvero in produzione virtuale sul set), nonché di una maestria nel dirigere e inquadrare cani facendoli recitare con giudizio senza indugiare nella scorciatoia sentimentalista alla Disney, il 65enne regista francese si permette pennellate ironiche sulla sua francesità/minorità: la prima cantante che Douglas imita in modo straordinario sul palco è Edith Piaf; il protagonista adolescente in un istituto recita Shakespeare ma anche una scena della sua Giovanna d’Arco. Infine i veri catalizzatori dello sguardo sono la muta di cani protagonista (su tutti un dobermann, un jack russell, un chihuahua e un paio di puli tipo cuscini da divano che fanno spavento) e Landry Jones che attrae magneticamente l’attenzione su quel corpo e su quel viso violentati, sofferenti, claudicanti, che diventano tutt’uno con l’essere animale. Per l’Italia distribuirà Lucky Red dal 5 ottobre.