Cinema

Festival di Venezia, Michael Mann dirige con la mano sinistra Ferrari. Adam Driver pessimo nella sua invariata catatonia

di Davide Turrini

Dal Comandante al Commendatore. A Venezia 80 dopo l’ammiraglio Todaro/Favino del film di Edoardo De Angelis giunge Ferrari il film, in Concorso, sul celebre drake di Maranello, diretto da Michael Mann. Tempo una ventina di minuti, però, e Ferrari, il film, ma anche una rossa fiammante da corsa che vediamo sullo schermo finiscono fuori strada. Nel racconto il tragico evento capita perché ad uno dei bolidi di Maranello si rompe il cambio tanto che pilota e auto finiscono al creatore. Mentre al povero spettatore tocca l’ennesimo esotismo di scrittura (e di regia) statunitense su fatti storici e di cronaca italiani. Ferrari è un film esile e incolore zeppo di clichè tanti quanti, e forse qualcuno in più, il Ridley Scott di Gucci.

Partiamo comunque dal via: un tamarrissimo recupero di filmati d’archivio seppiati sulle corse spericolate degli anni trenta dove si mescolano primi piani sornioni di Enzo Ferrari/Adam Driver (permettetici: pessimo nella sua invariata catatonia) alla guida e veri incidenti mortali (attenzione: è la tragedia che poi ritorna). Poi eccoci ad una didascalia sul 1947, l’acquisto dell’azienda di auto da parte di Enzo e Laura Ferrari, e subito dopo l’azione che si sposta definitivamente nel 1957. Se un giovinetto con intenzioni bellicose di far cinema proponesse le prime dieci righe di uno script siffatto verrebbe cacciato da chiunque (e infatti). Ma si sa, in un festival dove servono “autori” a uno come Mann – Insider, Heat e Alì, scusate, sono altro pianeta – viene concesso tutto. E allora eccolo il puttaniere Enzo svegliarsi nel letto luminoso e candido dell’amante (con figlio di Enzo nella stanzina a fianco ma non riconosciuto pubblicamente) per correre nella casa buia e disfatta della cornutissima tetra moglie e socia (una Penelope Cruz che nella strepitante parte “alla Loren” ci ha ormai assuefatti). Proprio in quegli istanti da giornata tipo modenese – i fiori portati da Enzo sulla tomba di Dino il figlio morto, la messa degli operai, la carrellata su tre quarti di personaggi che riappariranno in scena- ecco che i concorrenti industriali della Maserati accogliere in stazione l’asso del volante, Behra, e di lì a pochi minuti battere il record su pista. Il Drake è parecchio in difficoltà. Vende 98 auto di lusso all’anno (pochine: ne servono, dice il ragioniere, almeno 400), ma le finanze sono a secco (molto va anche al mantenimento della seconda famiglia all’insaputa di Laura). Serve la vittoria alle Mille Miglia, insomma, e una bella lavata di capo agli impiccioni giornalisti che Ferrari o caccia dalle conferenze stampa e ne corrompe uno facendogli scrivere una finta trattativa con i Ford solo per attivare l’interessamento degli Agnelli con la Fiat. Solo che la doppia famiglia, compresi i fantasmi di altre scappatelle, non rende serenissimo il Commendatore.

Fino a quando, appunto, scatta finalmente la storica corsa italiana e la Ferrari vince con l’anziano Taruffi (toh, Patrick Dempsey coi capelli bianchi) provocando però un tragico (vero) incidente con l’auto guidata dal giovane De Portego che falcia dodici spettatori a bordo strada. Ferrari è un film che però non carbura mai, che si dimena tra più bordoni narrativi a loro volta ancorati alla penitenza di frasi come: “Enzo siamo in Italia, tutta l’Emilia lo sa”, “Non trattarmi come una beatnik”, “tutti sappiamo che la morte è dietro l’angolo”, e vi risparmiamo l’improvviso richiamo mitologico di Saturno che divora i suoi figli applicata alla ruspante gigioneria dittatoriale della bassa emiliana. Gli attori, diretti un po’ con la mano sinistra, cercano senza mai trovare una trepidante caratterizzazione se non per banali silhouette e dettagli d’archivio (il gilet giallo del Drake). La messa in scena mostra evidenti segni di budget risicatissimo (gli stessi fondali urbani e oggetti di scena che appaiono più volte in contesti differenti o la macchina da presa incastrata in angusti e anonimi set modenesi). Mentre il ricorso ostentato ai suddetti cliché visivi e culturali tampona l’emorragia di un senso profondo che latita: si veda l’arrivo dei bolliti, del vino rosso, della pasta in tavola o la sintesi della situazione emotiva del racconto spiaccicata sul palco dell’opera lirica. Ulteriore problema, infine, è che Mann nel ricercare una peculiare e distintiva dilazione della dimensione del tempo del racconto perde pure il confronto nelle sequenze di corsa dove arriva dietro al Mangold di Ferrari-Ford ma anche allo Scott (Tony) di Giorni di tuono.

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