Sta per irrompere nelle aule parlamentari e nel Paese il dibattito sulla separazione delle carriere fra Pm e giudici. Un tema che ossessiona l’Unione Camere penali da più di un ventennio. Se ne era impadronito Silvio Berlusconi, la cui storia è un’antologia di invettive pesantissime contro i magistrati accusati di ogni nefandezza all’interno di una compulsiva strategia di delegittimazione. Ora la separazione è un cavallo di battaglia anche del ministro Carlo Nordio, non a caso sempre pronto a dichiarare la sua continuità con la linea del Cavaliere.

Per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere occorre una riforma della Costituzione (con possibilità di referendum confermativo) che preveda per Pm e giudici: due separati concorsi per accedere alla magistratura; due diversi CSM; due carriere differenziate. A sostegno della agognata separazione si porta soprattutto la necessità di rompere l’attuale colleganza (determinata dalla omogeneità di status) tra giudicanti e requirenti. La vulgata corrente (“pensi un po’, signora mia!”) è che giudici e Pm prendono il caffè insieme. Tradotto in “giuridichese” vuol dire che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un Pm che è suo collega, mentre uno status diverso e separato lo libererebbe dai condizionamenti dell’accusa e arginerebbe abusi e strapotere di quest’ultima.

Affermazione tanto suggestiva quanto errata. Se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e appartenenza tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere non solo le carriere di Pm e giudici, quanto piuttosto le carriere dei Gip da quelle dei giudici di primo grado e le carriere di questi da quelle dei giudici di Appello e poi di Cassazione. Per cui la separazione a rigore dovrebbe comportare una pletora di concorsi, di CSM e di carriere diverse. Sarebbe una scelta in linea coi principi posti a base della richiesta di separazione. Invece niente. Vuol dire che ci si rende conto che si andrebbe contro la logica e il buon senso. Ma se il punto di partenza sviluppato con coerenza porta alla irragionevolezza, continuare a sostenerlo significa farne un tabù ideologico da brandire per regolare i conti coi Pm scomodi perché troppo indipendenti.

Non solo: è evidente che l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile, che sarebbe inevitabilmente travolto dall’attrazione in una diversa cultura. Perché un corpo separato di Pm è destinato inevitabilmente a perdere l’indipendenza rispetto al potere esecutivo. Non esiste, infatti, un tertium dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo e non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 2.000 unità), altamente specializzato, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale (questo potere o è compensato dall’ancoraggio dei suoi titolari alla giurisdizione, oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica). Basta chiedersi: che differenza fa, di fronte ai misteri dei servizi deviati o ai casi di maltrattamento ad opera di forze di polizia, avere un Pm-giudice o un Pm-ministeriale?

Del resto, ovunque esiste una qualche forma di separazione delle carriere, i Pm debbono – per legge – eseguire gli ordini o le direttive del governo. Conviene al nostro Paese? Finché avremo una classe politica in parte implicata in fatti di corruzione e collusione col malaffare, incapace di bonificarsi, impossibile rispondere affermativamente.

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