In questi giorni ha destato scalpore la notizia di un manifesto funebre di un uomo gay, sotto al cui nome qualcuno ha reputato opportuno scrivere un insulto omofobico. Dinamica abbastanza banale, come il male che racchiude il fatto in sé. Il signor Adriano Canese muore e il suo compagno, Corrado Brun, gli dedica l’ultimo saluto pubblico. Qualcuno però scrive sotto la parola “froci”. L’ultimo insulto a una persona che non può nemmeno difendersi, perché è morta. Manifestando così l’esigenza di ricordarci quel legame, ancora indissolubile in certi casi, tra uomini civili e cavernicoli. Il fatto, insomma, si commenta da sé.
Non possiamo sapere chi è l’anonimo autore di quell’insulto. Non possiamo sapere se si tratta di un maschio eterosessuale (spoiler: no, non sto affatto affermando che tutti i maschi etero siano dei primati). Categoria su cui potrebbe ricadere la maggioranza dei sospetti. Fragile, infatti, è l’identità di un certo tipo di uomini, in questo paese. Uomini che sentono l’esigenza di irrobustire la propria identità scagliandosi contro le persone Lgbt+. Traducendo: scrivere o dare del frocio, per qualche etero “basic”, può essere davvero liberatorio. Pazienza, poi, se la psicoanalisi avrebbe molto da dire su questo tipo di atteggiamenti.
Certo, potrebbe essere stata anche una donna: l’omofobia, d’altronde, non risparmia di certo le persone di sesso femminile. Oppure una persona omosessuale, a sua volta. L’interiorizzazione dello stigma è molto forte, anche all’interno della nostra stessa comunità. Ma poco importa, in verità, scoprire chi è stato l’esecutore o l’esecutrice materiale di quell’insulto. L’unica evidenza è che si tratta di un individuo che ha perso il senso dell’umano. E ci dispiace per lui. Non deve essere bellissimo essere un mostro.
Le cose da mettere in luce, invece. sono altre.
Bisogna ricordare chi è il mandante sociale, innanzitutto. Ed è, appunto, quel clima avvelenato d’odio contro le categorie discriminate. Odio che viene rivendicato come un diritto dal fan club di una compagine politica specifica, casualmente collocata a destra (e con non pochi fan anche in una certa “sinistra”, non a caso conservatrice essa stessa). Odio che assume connotati e manifestazioni diverse, di volta in volta. Dalla pubblicazione di libercoli in cui ci si ricorda quanto siamo “anormali” – e vivaddio, se la normalità è quella di una massa che non sa più distinguere tra sentimenti aberranti e il diritto a pensare – alle più banali aggressioni fisiche che popolano le cronache dei giornali. Questo odio ha un nome: omofobia. Se cercate il colpevole, lo trovate sotto quella voce lì.
Ancora, una discussione più ampia andrebbe fatta sulla confusione che c’è tra libertà di espressione e linguaggio d’odio. Quanto accaduto, riguardo al manifesto funebre, è odio. Eppure per molte persone insultare e disprezzare le persone Lgbt+ (tra le altre categorie) è un modo come un altro di esprimersi. Una quotidianizzazione del male, che ce lo rende invisibile.
E poi, infine, c’è la matrice. Comune a quella di un’altra serie di fenomeni che funestano il nostro Paese. Per cui è normale filmare un’amica svenuta, riprendendone le parti intime, e pubblicare il video sui social. Per cui è normale violentare, bullizzare e disprezzare ragazzi e ragazze, sempre via web o sui telefonini. È una forma di vetrinizzazione della violenza. Forse frutto dei tempi moderni, per cui una cosa non esiste – quanto meno nella mente collettiva – se non finisce su un monitor.
Anche se poi quelle violenze, quelle aberrazioni e quelle frasi fanno male nella vita quotidiana. Nella psiche di chi si trova ad aver appiccicato addosso lo stigma, nel caso specifico. E non capire che ciò può ferire, anche in modo molto pesante, o saperlo e comportarsi come se non fosse un problema, è un problema. Di disumanizzazione collettiva.
È una parola, quel “frocio” scritto sotto il nome del signor Canese, che rimanda a un mondo che sente di poter far sfoggio di violenza, abusi e cattiveria. E quel mondo è fatto di persone che vivono in mezzo a noi. E quindi è un problema comune. Che va risolto quanto prima. Per una questione di salubrità sociale.