Cinema

Festival di Venezia, Ecco El Conde: il vampiro Pinochet di Pablo Larraìn è la sua opera più spregiudicata e imperfetta

di Anna Maria Pasetti

La resa dei conti. Con la dittatura di Pinochet, con quella parte di popolo cileno che non l’ha abbastanza osteggiata divenendone complice e che ancora oggi non la condanna totalmente, con la propria famiglia che ne è stata affrancatrice al governo. Al suo decimo lungometraggio Pablo Larraín ha scelto di girare il suo film più estremo, radicale e provocatorio – per forma e contenuto – per aggiungere forse il capitolo definitivo alla trilogia sulla dittatura costituita dai suoi primi film, ovvero Tony Manero (2008), Post mortem (2010) e NO – I giorni dell’arcobaleno (2012). In concorso a Venezia 80 porta dunque El Conde, un horror di corrosiva satira politica giocata sul piano dell’allegoria e del grottesco, che finalmente dà un corpo e un volto ad Augusto Pinochet, la pietra dello scandalo di gran parte del suo cinema, finora raccontato nel riflesso degli effetti criminali sul suo popolo. E lo fa incarnandolo nella peggior creatura mostruosa possibile, un vampiro, che si fa chiamare El Conde. È lo stesso Larraín a tracciare il senso della genesi del film: “Ho trascorso anni immaginando Pinochet nelle vesti di un vampiro, come un essere che non smette di imperversare nella storia, sia nella nostra immaginazione che nei nostri incubi. I vampiri non muoiono, non scompaiono, e nemmeno i crimini e le ruberie di un dittatore che non ha mai affrontato la giustizia. Per questo – continua il regista – volevo evidenziare la brutale impunità che Pinochet rappresenta. Mostrandolo per la prima volta apertamente, in modo che il mondo potesse cogliere la sua vera natura: vedere il suo volto, respirare il suo odore”.

Optando per un inedito quanto stilizzato bianco e nero che non poco ricorda l’astrazione espressionista (meraviglioso il lavoro del doc Ed Lachman), il regista nato a Santiago nel 1976 ambienta la maggior parte del film in una sinistra fattoria isolata nelle praterie cilene ove la moglie, i cinque figli e il fedele nonché abietto servitore (interpretato dal suo attore feticcio Alfredo Castro) di Pinochet si ritrovano con il generale per organizzare l’eredità di questi alla famiglia, giacché dopo 250 anni da morto-vivente è pronto a decidere se scomparire per sempre o continuare a dissanguare l’umanità. Già, perché Pinochet in realtà pre-esisteva all’identità cilena, si chiamava Pinoche, era francese, e aveva servito Luigi XVI fino alla Rivoluzione che aveva osteggiato e durante la quale era fuggito, resuscitando di volta in volta al fianco di qualche tiranno della Storia e contro qualche rivoluzione popolare. Un reazionario dalla natura violenta, criminale ma codarda, dunque, perpetrata tra secoli e popoli, come da comica narrazione di una voce narrante in inglese britannico di cui il film – in seguito – rivelerà l’identità.

Quella dei Pinochet, ovviamente, non poteva che diventare famiglia di mostruosi infami, ma con risvolto ben più tragico perché realmente vissuti o viventi, come i figli del dittatore che non poco s’irriteranno davanti a questa nuova fatica cinematografica di Larraín. Al di là di un plot intrigante e originale, e un cast supremo composto da diversi attori sodali del regista, la forza di questo lavoro non poco respingente perché respingente è ciò che racconta, è la metafora politica che, a differenza dei precedenti film, trova qui una enunciazione esplicita, quasi frontale espressa soprattutto nei fitti dialoghi funambolici, benché rivestita da una danza macabra densa di elementi tragicomici, barocchi, visionari e stravaganti. E tale linguaggio immaginifico, che per Larraín notoriamente coincide con il contenuto, è quanto qui gli è necessario per informare la sua più provocatoria e personale resa dei conti rispetto alla natura contagiosa ed ereditaria del Potere, ovvero un Male auto-rigenerante che si nutre del sangue popolare quando nessuno glielo impedisce, ma anche un modo per dissotterrare le misteriose connessioni (la Chiesa, il Regno Unito, ovviamente gli Stati Uniti..) e le segrete ricchezze (conti bancari, fidi e investimenti sparsi nei più remoti angoli del pianeta..) di Pinochet e del suo clan, la cui prole altro non vede che il denaro, il cuore malvagio che seduce e distrugge l’anima e le coscienze.

Nell’opera finora più spregiudicata, coraggiosa, divisiva, forse imperfetta del suo cinema (alcune sbavature di troppo ci sono) sembra dunque compiersi il percorso di j’accuse di Larrain contro il regime sotto cui è nato, e che ha da sempre combattuto col suo straordinario cinema. Un’opera allegorica su un tiranno del passato ma che in realtà parla alle generazioni presenti e future perché se è vero che “la Storia debba necessariamente ripetersi”, è altrettanto doveroso tentare di evitare di ripetere errori fatali. Netflix, che l’ha co-prodotta con Fabula, la programmerà dal 15 settembre

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