Sono confini tracciati col lapis della storia coloniale e assunti dalle cartine geografiche appese con uno spago nelle scuole elementari e superiori. Il Mali, l’Algeria, la Libia, il Ciad, la Nigeria, il Benin e il Burkina Faso, così chiamato dal capitano Thomas Sankara, definiscono a modo loro il profilo del Niger. Si tratta delle frontiere esterne del Paese, alcune delle quali parzialmente o seriamente chiuse in seguito alle sanzioni applicate dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, in breve Cedeao.
Il trasporto fluviale dal vicino Mali è derisorio e il Niger, Paese senza sbocco sul mare, si è visto privato dell’indispensabile commercio di mercanzie che transitano dai porti della costa atlantica per arrivare a destinazione tramite centinaia di camion. La fila di questi ultimi, bloccati al confine col Benin, è di parecchi kilometri e la situazione di insicurezza legata ai gruppi armati nel Burkina Faso non offre valide alternative. Persino la corrente elettrica, fornita dalla Nigeria, si trova confinata dall’altra parte con conseguenze deleterie per le attività lavorative e le condizioni di vita dei cittadini sotto embargo. Per le strutture sanitarie è un dramma.
Ci sono poi le frontiere interne del Paese e sono quelle che pesano di più nella ridefinizione del popolo e delle suoi attributi essenziali. Quelle geografiche hanno la loro importanza, perché ciò che il deserto o la savana creano nell’immaginario non è lo stesso di chi vive lungo il fiume Niger. Così pure influiscono sull’assetto sociale le frontiere etniche, culturali, religiose e linguistiche. Quanto a quelle economiche esse hanno marcato e segnano a tutt’oggi il paesaggio sociale del Paese. La prima e discriminante frontiera è tra coloro che hanno diritti e coloro che non sanno di averne. Dunque il fossato tra chi ha (ed è) e chi non ha (e non è nessuno).
Seguendo questa linea di confine si trova la politica che, secondo ben noti principi, dovrebbe costituire il migliore baluardo contro le ingiustizie e le disuguaglianze che crescono e si affermano in ogni società. La crisi della politica che ha, nel complesso, fallito il duplice compito appena citato ha contribuito a rendere ancora più robuste le barriere che dividono i cittadini. Con gli anni si è andato disegnando un sistema di apartheid interno al Paese che ha, nel tempo, creato esclusi, invisibili e vendibili.
Tra le frontiere interne non si dovrebbero sottostimare quelle inventate ad arte per ‘arginare’ la mobilità umana nello spazio nigerino. L’esternalizzazione delle frontiere europee nel cuore del Paese si è definita come argine al movimento libero dei migranti e dei rifugiati. Molti di loro, senza volerlo, passano da guerra a conflitto armato e da espulsione a deportazione. Attraversano il Niger per poi trovarsi circondati da muri e fili spinati, invisibili ma non meno efficaci. Le forze dell’ordine che operano lungo le strade e soprattutto alle frontiere si specializzano nell’intimidire, derubare e rimandare indietro quanti osano avventurarsi su sentieri inospitali. C’è nondimeno da riconoscere che il Paese si è gradualmente trasformato in una terra di approdo per centinaia di migliaia di rifugiati e sfollati e, in questo caso, le frontiere interne si sono trasformate in porte. Case di transito per migranti e richiedenti asilo, un campo per essi adibito a Hamdallay, villaggio non lontano dalla capitale, capanne fabbricate di plastica e di nulla e soprattutto, per molti, l’attesa del temuto ritorno al Paese natale, perso e ritrovato con mani nude e libere.
Queste e altre sono le frontiere che attraversano il golpe e dalle quali esso è attraversato. Da non dimenticare soprattutto quelle definite dai Gruppi Armati che in pochi anni, nella zona delle Tre frontiere (Burkina, Mali e Niger) hanno occupato territori, villaggi, scuole, dispensari e creato il temibile muro del terrore! La frontiera della casa presidenziale dove si trova a tutt’oggi detenuto il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale è a sua volta complice di nuove barriere. Quella dei militari del golpe che vorrebbe riaprire le frontiere, già citate, della politica inceppata nel Paese. Quelle che i giovani attraversano con trombe, bandiere e incosciente voglia di altro che ridoni spazio alla loro vita. Quella del quotidiano, così marcatamente precario in città mentre nella campagne basta la pioggia per quanto seminato a coltivare un futuro possibile. Anche perché, come ampiamente accettato, le nostre frontiere sono mobili come zolle di polvere che il vento si diverte a disegnare a forma di speranza.