L’entità del problema sarà messa nero su bianco solo nella Nota di aggiornamento al Def, attesa per fine settembre. Di certo il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha capito che gli interventi decisi dal governo sei mesi fa per ridurre l’impatto dei bonus edilizi sui conti pubblici non stanno portando nemmeno lontanamente i risultati sperati. È una questione contabile: l’Eurostat non si è ancora pronunciato sulla possibilità di modificare la classificazione dei nuovi crediti e spalmarli sull’indebitamento dei prossimi anni. Al momento vengono registrati come spese. Così i calcoli fatti a febbraio sono sballati: il Superbonus “costa ancora 3,5 miliardi al mese“, come ha ammesso lunedì sera Giorgetti in consiglio dei ministri. Una sorpresa che renderà più difficile del previsto il percorso della manovra. Di qui i timori della premier Giorgia Meloni, che lunedì ha tirato in ballo le truffe (da cui peraltro il 110% è stato peraltro quasi immune) per mettere le mani avanti e avvertire che le risorse sono scarse.
Prima di arrivare all’oggi serve ricordare come nasce questa situazione. Superbonus 110%, sconto in fattura e cedibilità dei crediti edilizi, introdotti dal governo Conte nel 2020 come misure emergenziali per spingere la ripresa post Covid, sono stati più volte prorogati – anche dal successore Draghi – con il benestare di tutti i partiti. Nell’autunno 2021 l’ex presidente della Bce e allora premier ha messo alcuni paletti alle cessioni, mentre solo nel febbraio 2022 ha deciso all’improvviso di limitarle a una sola con effetto retroattivo, precipitando nel caos tutto il settore. La mossa draconiana è stata criticata anche dalle destre e presto modificata per restringerne la portata. Meloni ha poi ridotto al 90% la maxi-detrazione, ma ha presto ceduto a richieste bipartisan e consentito ai condomìni di godere ancora del 110% a patto di presentare la comunicazione di inizio lavori (Cilas) entro dicembre 2022 e ai proprietari di case unifamiliari di ottenerlo fino al marzo di quest’anno, scadenza poi prorogata al 30 settembre e da ultimo, con il decreto Omnibus del 10 agosto, al 31 dicembre, a condizione di aver completato il 30% dei lavori entro il 30 settembre 2022.
Una confusione normativa che, mentre si gonfiava il bubbone dei crediti incagliati, ha fatto partire la “corsa alle Cilas” per non perdere il treno della maxi agevolazione. A febbraio, senza alcun preavviso, è arrivato infine lo stop totale a sconti in fattura e cessione dei crediti fatta eccezione per chi avesse comunicato l’inizio lavori prima del decreto. “L’obiettivo è mettere in sicurezza i conti pubblici”, ha spiegato all’epoca il titolare del Tesoro. L’Eurostat aveva infatti chiarito che Superbonus e bonus facciate, essendo cedibili e utilizzabili in compensazione di altri debiti fiscali, andavano contabilizzati come spese già nell’anno in cui si generano. Su quella base l’Istat, pochi giorni dopo, ha rivisto al rialzo i deficit del 2020, 2021 e 2022. La speranza del governo era che il decreto adottato in corsa avrebbe modificato la natura dei bonus consentendo di registrare quelli del 2023 e 2024 come “non pagabili“, dunque con impatto sull’indebitamento solo al momento dell’effettivo utilizzo da parte del contribuente.
Ma la valutazione di Eurostat, attesa entro il 30 giugno stando a un’audizione del ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta, non è ancora arrivata. E nel frattempo la spesa ha continuato a correre: tra fine gennaio e fine luglio, come emerge dall’ultimo report dell’Enea, sono stati ammessi a detrazione investimenti per 17,7 miliardi e le detrazioni maturate solo per i lavori già conclusi sono di conseguenza lievitate di quasi 20 miliardi, da 54,7 a 74,2. Che salgono a quota 91 miliardi se si contano anche i cantieri aperti. Istat continua provvisoriamente a trattarli come crediti pagabili, che vanno a gonfiare il deficit nel momento in cui maturano. L’impatto sul deficit/pil tendenziale, che il Def prevedeva al 3,5%, sarà quantificato nella Nadef da approvare entro il 27 settembre.
Fin qui la questione meramente contabile, che preoccupa in vista della manovra ma potrebbe risolversi se arriverà il verdetto dell’ufficio statistico europeo. Sullo sfondo resta un altro aspetto, più sostanziale: l’enorme sottovalutazione dell’impatto dei bonus sul fabbisogno dello Stato. La differenza tra le stime originarie (70,9 miliardi) e l’aggiornamento ex post, come ha riconosciuto la Ragioneria generale a maggio, ammonta ad almeno 45,2 miliardi nel periodo 2020-2035. Dal fabbisogno dipende la variazione del debito, che rischia dunque di rivelarsi molto sopra le attese. Con le trattative sul nuovo Patto di stabilità che stanno per entrare nel vivo, è questo lo scoglio più difficile da superare.