Dinanzi i recenti fatti di Palermo e Caivano, disgraziatamente preceduti e seguiti da analoghi episodi a ogni latitudine possibile, oltre lo sconcerto, la preoccupazione, l’indignazione e il desiderio punitivo per chi di quelle orribili azioni si è reso artefice, molti sono stati i punti di domanda circa le possibili cause, i possibili retroterra culturali, fruitivi e ambientali alla base di atti talmente ripugnanti.

Le cause, a ben vedere, sono certamente molteplici, e questo a partire da una fruizione web del porno, divenuto spesso atto di gratuita e bestiale violenza, oramai totalmente incontrollata, fino a una mercificazione del corpo della donna che proprio negli ultimi giorni ha trovato ulteriore conferma nella notizia della signorina ricoperta di cioccolato per il volgare intrattenimento degli ospiti di un hotel in Sardegna.

Tra le tante concause sarebbe sbagliato non considerare, come già diversi commentatori hanno sottolineato e fatto notare, quella musicale, e più specificamente il condizionamento che le parole messe in musica possono esercitare sugli ascoltatori. Già la storia, su altri versanti e in altri contesti, offre infatti numerosissimi esempi dell’incredibile divario, in termini di efficacia comunicativa ed effetti sulle masse, tra la parola parlata e quella cantata: fin dai tempi del canto gregoriano infatti si era capito quanto la parola che si fa melodia abbia un’impareggiabile capacità di penetrazione nelle coscienze, nelle convinzioni, nelle credenze degli ascoltatori, una lezione che non sfuggirà molto più avanti a regimi totalitari quale quello fascista come anche all’industria pubblicitaria.

Ma se la storia o il buon senso non dovessero bastare a renderci consapevoli di tanta influenza, sarebbe errato non considerare la grossa mole di studi scientifici intorno agli effetti che i testi delle canzoni possono avere sui loro ascoltatori: non si fa evidentemente riferimento, in questa specifica sede, a casi isolati, sporadici, episodici, a singole canzoni cioè inserite in interi cataloghi musicali; tantomeno ci si riferisce a produzioni e generi di basso consumo, bensì a esempi, modelli e specifici contenuti valoriali industrialmente offerti con sistematicità in generi musicali di tipo mainstream, dunque ad altissima fruizione e significativo impatto sociale.

Oltre che inequivocabile, a riguardo la letteratura scientifica è infatti tanto copiosa quanto storicizzata, contemplando, tra gli altri, i contributi di Bargh & Pietromonaco del 1982, Barongan & Hall (significativamente intitolato L’influenza della musica rap misogina sull’aggressione sessuale contro le donne, 1995), Bargh, Chen & Barrows del 1996, Anderson, Benjamin & Bartholow del 1998. Più recente è poi lo studio intitolato Esposizione a media violenti: gli effetti delle canzoni con testi violenti sui pensieri e i sentimenti aggressivi, pubblicato dall’autorevole Journal of Personality and Social Psychology e firmato da Craig A. Anderson, Nicholas L. Carnagey e Janie Eubanks: “Ci sono validi motivi – si legge nell’articolo – per preoccuparsi degli effetti potenzialmente dannosi dei testi musicali violenti. Numerosi studi hanno dimostrato che le parole aggressive possono innescare pensieri, percezioni e comportamenti aggressivi (…) Inoltre, gli ascoltatori sono in grado di riconoscere i temi della musica (…) anche quando è difficile comprendere il contenuto specifico dei testi”.

Basandosi su cinque diversi esperimenti, lo studio di Anderson, Carnagey e Eubanks arriva a individuare effetti sia a breve che a lungo termine: “Nella situazione immediata – leggiamo nell’articolo – l’esposizione a testi violenti aumenta l’accessibilità a pensieri e affetti negativi (…) In sintesi, l’ascolto di musica violenta e arrabbiata non sembra fornire il tipo di liberazione catartica che il grande pubblico e alcuni psicologi professionisti e pop credono (…) L’esposizione ripetuta a testi violenti può contribuire allo sviluppo di una personalità aggressiva”.

Non c’è dunque da stare troppo allegri: com’è infatti noto, è soprattutto da più di 15 anni a questa parte che le fasce sociali più sensibili, i giovani più giovani dall’età più tenera fin oltre quella maggiore sono destinatari di una industriale, non occasionale, produzione mainstream di testi sessisti e misogini, una distorta narrazione dagli effetti ben noti al buon senso, alla storia e alla scienza. Meno noti, evidentemente, a tutte le stazioni radio, le piattaforme di musica in streaming e più in generale quei canali di diffusione che in questi anni hanno veicolato e continuano ancora oggi a veicolare messaggi tanto potenti quanto nocivi.

In conclusione: chi sottovaluta o, peggio, disconosce il potere condizionante dei testi musicali o ignora storia e studi di settore o è del tutto in malafede.

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