Ma che musica Maestro! Dopo A star is born il pallino per la musica di Bradley Cooper rotola fino al Concorso di Venezia 80. Ed altro che naso adunco “a rifare l’ebreo”. Il Leonard Bernstein di Cooper (regista, sceneggiatore e interprete) è il risultato di una performance mimetica assoluta, ciuffo, sigaretta senza filtro, tic, scioltezza ed esuberanza fisica che colpiscono, illuminano, allargano curiosità e sguardo sul pianista e direttore d’orchestra poliedrico che ha rimescolato e rivoluzionato la forma compositiva della musica nel secondo dopoguerra. Incredibili colonne sonore per il cinema e di musical teatrali (West side story su tutti), una popolarissima striscia educativa sulla musica in onda per anni sulla CBS, ma soprattutto compositore di musica sinfonica e orchestrale che l’ha portato a dirigere la Callas alla Scala, la New York Philarmonic per una dozzina d’anni e le più grandi orchestre del mondo.
Maestro è un biopic narrativamente classico suddiviso in due parti a livello temporale: la prima più sognante, speranzosa, romantica tra gli anni quaranta e cinquanta virata in bianco e nero con la brillante talentuosa affermazione professionale di “Lenny”, la storia d’amore, matrimonio e figli con l’attrice Felicia Montalegre (una Carey Mulligan di rara intensità, già in discesa per la vittoria del Leone d’Oro e l’Oscar); e una seconda parte ambientata nei settanta dai colori saturi e un po’ bugiardi dove si mostra il consolidamento del mito mondiale di Bernstein e l’intima crisi di coppia dovuta agli amori gay di Lenny non più sopportati, anche se mai resi pubblici, da Felicia.
Nella prima ora Cooper opta per una regia più dinamica, dalla cornice di fiaba hollywoodiana d’altri tempi, perfino con sfavillanti sequenze di musical (che piaceranno al presidente di giuria, Chazelle). Mentre nella seconda, con lunghe sequenze a camera fissa, quasi bergmaniane, letteralmente immerse nella campagna a ridosso del mare della costa est (c’è un campo lungo in giardino dove nemmeno si distinguono nel verde Leonard e Felicia) ecco l’idillio artistico e familiare che si sfalda. In modo molto lento, graduale, una implosione di rilievo impressionante dovuta alla stessa molla con la quale Lenny si afferma: la necessità narcisistica di vampirizzare chi sta attorno, gettandolo poi di lato una volta non più utilizzabile. Così se il romanticismo con cui Lenny ha una relazione dolcissima all’inizio del film da ventenne con un giovane clarinettista, i flirt da cinquantenne canuto sono tutti con giovinetti frivoli e righe di cocaina da pippare come aspirapolveri.
Poi certo Maestro non è cinema da urla e strepiti, non ha impennate melodrammatiche vere e proprie, e nemmeno forzature istrioniche di attori e virate repentine di scrittura. Se non per questo ulteriore scivolare negli ultimi venti minuti nella malattia e nella morte di Felicia, facendo diventare Maestro – un po’ come A star is born – un film di coppia, paritario nei primi piani e nel minutaggio, schiena contro schiena, tra marito e moglie. Infine se l’indecisione di Lenny per tutta la vita verteva sia sulla sua depressione da mancanza di “sole nel proprio giardino” creativo, come dal tarlo un po’ imbastardito dell’artista che aveva sposato una linea creativa più eterogenea, a tre quarti di film Cooper piazza sul palchetto di una cattedrale gotica un irrefrenabile, travolgente, infinito “maestro” a dirigere l’orchestra in una maestosa sinfonia per una sequenza di rigorosissima pulizia sonora e visiva, quasi a elevare definitivamente Bernstein nell’olimpo della sinfonica. Tra i produttori esecutivi ci sono Steven Spielberg (che avrà messo una buona parola per le royalties di West side story) e Martin Scorsese (che voleva inizialmente dirigere il film). Produce Netflix: in sala a novembre e poi a dicembre in streaming.