Adagio è un ottimo esempio di cinema italiano di genere con rapide impennate di brutalità e violenza senza remore stilistiche ed espressive verso gli stilemi della tradizione d’oltreoceano e d’oltralpe
Se volete sparare su Stefano Sollima e Adagio, in Concorso a Venezia 80, ci facciamo largo tra la folla e mostriamo il nostro petto. Il ragazzo non ha più le spalle strette e si è messo pure a fare i conti con i padri. Cosa volete di più? Adagio è puro cinema di genere, qui sorta di thriller poliziesco abraso dalla cenere (reale) del noir, coagulato attorno ad una Roma criminale che sta per essere sciolta nel fuoco degli incendi che si intravedono dalle lontane periferie in campo lungo. Tra un blackout e l’altro, tre carabinieri corrotti (Adriano Giannini è il capo con efficace piglio) ricattano il sedicenne Manuel e lo obbligano ad andare a raccogliere prove compromettenti ad un festone d’alto bordo contro un signore travestito, pedofilo e cocainomane. Quando il ragazzo si immerge nella festa si accorge che finirà anche lui tra gli inquadrati delle telecamere nascoste e fugge. Mal gliene incolse. Perché la trappola ha grossi committenti e i tre caramba sono disposti a tutto per di ritrovare il ragazzo e metterlo a tacere. Peccato che Manuel sia figlio di Daytona, un ex criminale apparentemente rimbambito (Toni Servillo) che a sua volta chiede aiuto per il figlio ad altri due facce da teppa: Pol Niuman (Valerio Mastandrea in versione non vedente) e Camel (Pierfrancesco Favino, claudicante, calvo e sotto chemio). Il sestetto verrà a contatto più volte e saranno solo scintille di morte. Personaggi privi di morale e di scrupoli etici, spazi contornati da plastica per raccogliere sangue e cadaveri, pallottole che schizzano improvvise sui crani, Adagio è un ottimo esempio di cinema italiano di genere con rapide impennate di brutalità e violenza senza remore stilistiche ed espressive verso gli stilemi della tradizione d’oltreoceano e d’oltralpe. Sollima è un virtuoso creatore di atmosfere e scenari in dissoluzione, come di una peculiare tempistica narrativa sugli incontri inattesi tra criminali in scena quasi fossimo in una svolta western alla Leone o in un divertissement alla Tarantino. Appunto, il ritmo dell’orchestrazione è quello dell’adagio, quindi tra il lento e l’andante, senza veri e propri strappi, anche quando si arriva alla posata e tesa resa dei conti finale. Infine, nel declino inesorabile del mondo criminale vero e proprio dei tre vecchi in scena, come per il carabiniere corrotto di Giannini, si respira un’aria di confronto/scontro generazionale filmico ed extrafilmico. Titoli di coda su Tutto il resto è noia di Franco Califano. Terzo film della trilogia di Sollima sulla Roma criminale dopo ACAB (2012) e Suburra (2015).