Che fu un missile a far esplodere e precipitare nelle acque di Ustica il Dc9 dell’Italia il 27 giugno 1980 è una verità storica e giudiziaria da oltre 11 anni. Prima i giudici del Tribunale civile di Palermo con più decisioni, poi la Cassazione con almeno due verdetti hanno messo un sigillo definitivo alla “tesi” che è tornata a essere argomento di discussione, anche politica, dopo un’intervista dell’ex premier Giuliano Amato. Si tratta delle sentenze che hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i parenti delle vittime e gli eredi di Aldo Davanzali, il patron dell’Itavia.

La prima data fondamentale nella labirintica storia giudiziaria sulla “tesi del missile” è il 28 gennaio 2012: la III sezione civile della Cassazione, in poco più di sei pagine, respinge tutti i ricorsi contro i risarcimenti disposti dai giudici di Palermo per alcuni famigliari delle 81 vittime che avevano fatto causa ai ministeri dopo l’assoluzione ai quattro generali dell’Aeronautica accusati di depistaggio (Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Zeno Tascio e Corrado Melillo). Il 10 gennaio 2007 la Suprema corte penale aveva escluso la responsabilità degli alti ufficiali e anche l’abbattimento in volo del Dc9 da parte di un missile. Alcuni famigliari però nel maggio successivo avevano fatto ricorso alla giustizia civile e da quel momento le cause si erano moltiplicate. Fino a quel momento i parenti delle vittime, che il 27 giugno del 1980 salirono a bordo del Dc9 dell’Italia a Bologna senza mai raggiungere l’aeroporto di Palermo, erano stati rimbalzati tra depistaggio e l’altro con le tesi del cedimento strutturale o della bomba. I giudici del Tribunale civile invece, riconoscendo il risarcimento, avevano accolto la tesi del missile o della collisione riscrivendo processualmente la verità. Ricorso dopo ricorso si è arrivati alla Suprema Corte.

Nel verdetto della Cassazione civile si legge che il quarto ricorso dei ministeri dei Trasporti e della Difesa viene respinto perché “… è abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile…”. Poche righe che diventano il primo sigillo ufficiale all’abbattimento del Dc9 in uno scenario di guerra. Gli stessi magistrati poche righe dopo aggiungono che “il giudice di merito non è tenuto a dar conto di ogni argomento contrario alla tesi da lui accolta”. I radar civili e militari non vigilarono come avrebbero dovuto sui cieli italiani e per questo i ministeri dovevano risarcire. La Suprema corte, confermando gli indennizzi, era andata addirittura oltre i magistrati di Palermo che in uno dei verdetti, avevano innanzitutto stabilito che nessuna bomba era a bordo dell’aereo che si inabissò a 3000 metri di profondità; perché quella sera su Tirreno era in corso un’azione di guerra e l’aereo dell’Itavia, su cui viaggiavano quattro membri dell’equipaggio e 77 passeggeri, era stato usato come schermo o meglio uno scudo per impedire ai radar di mostrare l’affollamento del cielo. A abbattere il Dc9 fu un missile o una ”quasi collisione” sostennero i giudici siciliani, non un ordigno. ”Tutti gli elementi considerati – scrisse il giudice Paola Proto Pisani – consentono di ritenere provato che l’incidente si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il Dc9”.

Sei anni dopo, il 22 maggio del 2018, è ancora la Cassazione a stabilire un risarcimento. In questo caso i parenti da risarcire erano gli eredi del proprietario dell’Itavia. Dopo il disastro furono sospese le attività di volo (10 dicembre del 1980) e tra il 1980 e il 1981 l’Autorità aeronautica dichiarò decaduti i servizi di linea e venne decisa la risoluzione delle convenzioni esistenti. Ancora i ministeri della Difesa e dei Trasporti i responsabili per la Cassazione: non agirono mentre nello spazio aereo italiano assegnato a Itavia entravano “aeromobili da guerra non autorizzati e non identificati” e “senza che fossero adottate misure per evitare”. Un verdetto che quindi ha ulteriormente ribadito la “tesi del missile”. La Cassazione a sezioni unite si sottolineava l'”omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica” e l’aereo era caduto in mare a causa “dell’esplosione esterna dovuta a missile lanciato da altro aereo“. Anche in questo caso una sentenza in contrasto, ma successiva a quella sui generali nel filone penale. “Se i ministeri avessero adottato le condotte loro imposte dagli obblighi di legge, – scrive la Suprema Corte – l’evento non si sarebbe verificato, posto che attraverso un’adeguata sorveglianza della situazione dei cieli sarebbe stato possibile percepire la presenza di altri aerei lungo la rotta del Dc9 e, quindi, adottare misure idonee a prevenire l’incidente”. “Ad esempio non autorizzando il decollo, assegnando altra rotta, avvertendo il pilota della necessità’ di cambiare rotta o di atterrare onde sottrarsi ai pericoli connessi alla presenza di aerei militari, infine, intercettando l’aereo ostile con aerei militari italiani“. Itavia, costretta a chiudere i battenti da una campagna denigratoria, era stata fondata dall’imprenditore Aldo Davanzali, morto nel 2005. A prendere il testimone nella battaglia contro lo Stato italiano, sono state le figlie Luisa e Tiziana. Con una sentenza successiva è stato stabilito che il risarcimento per gli eredi di Davanzali sia di 330 milioni. Quando nel 2013 era stato accolto il ricorso degli eredi i giudici della Cassazione avevano stabilito che le indagini erano state inficiate da una “significativa attività di depistaggio“ che poteva avere contribuito concretamente a determinare il crac della compagnia aerea.

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Su Ustica giusto chiedere conto a Nato e Francia, ma non eludiamo la questione italiana

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