Suonino le campane a festa. Dopo una ventina d’anni di titoli disgraziati Woody Allen ha girato un film godibile. Quando settimane fa avevamo letto la sinossi di Coup de chance, Fuori Concorso a Venezia 80, già tremavamo di paura: il solito tema del caso (e della fortuna) nel corso della vita. Topica alleniana trascinata per i capelli dai tempi (magnifici) di Crimini e misfatti e che si è ripresentata in Match Point (e ancora qualcosa… ), poi Cassandra’s dream (terrificante) e Irrational man (inguardabile). Coup de chance è girato a Parigi e segue un terzetto di personaggi ben scolpiti nel loro rischio di auto cliché (o manierismo) alleniano. Fanny (Lou de Laage), giovane e bellissima gallerista d’arte, è sposata con il ricco, spavaldo e un po’ più grande di lei, Jean (Melvil Poupaud). La coppia vive in un elegante appartamento parigino con stucchi e cameriera in livrea. Nulla sembra mancare ai due, inseriti e anzi amati componenti dell’alta società del centro città. Finché Fanny, proprio davanti all’ufficio, incontra per caso Alain (Niels Schneider), un ex compagno di scuola, scrittore bohemien animato da un amore antico, e mai sopito, per lei. Il tradimento dolce e romantico si consuma, ma Jean, un vera carogna priva di scrupoli, vede bene di far togliere di mezzo da un paio di energumeni il pretendente, come già aveva fatto con un suo ex socio d’affari nel passato.
Allen sembra come aver improvvisamente archiviato il lato grottesco demenziale di certi suoi personaggi eccentrici (si contiene nel casting dei killer bulgari, ad esempio): niente idiosincrasie, nessun balbettio o alter ego del regista in scena, solo cinema e buono. Poi ancora: lo humor. Si contano due tre battute vere e nemmeno troppo eclatanti, ma non le raffiche smunte vere e proprie scorciatoie degli ultimi vent’anni, per un’opera oltretutto piuttosto tesa e pulita nel ritmo e nelle atmosfere. Complici intensità cromatiche e movimenti di macchina del direttore, pardon “autore”, della fotografia Vittorio Storaro che a questo giro parigino fa rinascere lo sguardo alleniano (o è Allen a farlo rinascere, poco importa, l’importante è che sia rinato) con una padronanza di brevi piani sequenza, come il turbinio iniziale, di inquadrature prolungate di interni a figura intera come angolati dall’alto verso il basso più che frontali. Insomma, la macchina da presa c’è e imprime senso alla visione, come c’è il racconto che vivaddio rimescola un po’ le carte con piccole variazioni sul tema attorno al fato benedetto (“la fortuna non esiste, si provoca”), spostando il ruolo della vittima nel campo maschile e facendo pesare sull’interprete femminile il peso della perdita. Il finale eticamente gustoso, realmente divertente, è l’apice di un Allen concreto, risoluto e paradossalmente maturo dopo tanto cinema tirato via. Sublime in chiave falso moderna il tema jazz di Cantaloupe Island nella versione di Nat Adderley. Due le citazioni visibili dai suoi film: il libro di poesia donato da Alain a Fanny come Michael Caine a Barbara Hershey in Hannah e le sue sorelle; la figura della madre di Fanny (Valerie Lemercier, una delle star francesi più popolari) negli ultimi venti minuti che ricalca movenze e somiglianze somatiche della buffa detective Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manhattan. Nel cast spicca Poupaud: autentico villain in abiti firmati, cattivo e cinico come pochi, uno dei più bravi attori francesi contemporanei. Film prodotto con capitali franco-inglesi per via della cacciata di Allen dal mercato statunitense. Il 6 dicembre in sala per Lucky Red.