Cinema

Enea, il film di Pietro Castellitto è uno di quelli che tra qualche anno diventeranno di culto

di Davide Turrini

Pietro Castellitto il dinamitardo. Enea, il suo secondo lungometraggio, in Concorso a Venezia 80, è di quei film che tra qualche anno diventeranno di culto. Lo sbriciolamento di ogni forma narrativa e stilistica certa e riconoscibile è servita. In un’acidula e sinistra Roma nord – “una bocca pronta a mangiarci tutti” – da circolo esclusivo di tennis e canottaggio, il figlio di famiglia borghese Enea (Pietro Castellitto) porta in spalla come mito vorrebbe il malinconico padre (lo psicoanalista Celeste, Sergio Castellitto), la triste madre conduttrice di una trasmissione tv sui libri (Chiara Noschese), e si azzuffa con il fratello minore Brenno (Cesare Castellitto), a sua volta appena malmenato a scuola. Mentre con l’amico Valentino, fresco aviatore, giocano a poker, sfrecciano tra le piste da ballo della loro disco (inferno) villa incendiata neroniana, contrabbandano un carico di droga che si rivela imponente e fatale. Poi c’è una tennista bellissima (Benedetta Porcaroli) che diventa regina liberty tutta in bianco vestita a fianco del capo clan Enea, e infine il villain della storia, il “potente” (Giorgio Montanini).

Non aspettatevi però indizi e spiegoni chiari da gangster movie (cosa che il film sottotraccia è) o, dall’altro lato, scorciatoie retoriche tipiche da crisi familiare e generazionale (e sottotraccia c’è anche questo). Con Castellitto non c’è visione, non c’è tensione, non c’è storia se non attraverso l’accettazione incondizionata di questa foga anarchica e istintiva, naturale e provocatoria, che sbriciola ad ogni movimento di macchina il déjà vu. Una magniloquenza, anche produttiva, che fa levitare nel cielo padre e madre di Enea o che per rappresentare la fine epica di un dei personaggi principali rievoca un attentato modello 11 settembre con tanto di crash aereo ultrarealistico. Al ragazzo bisogna stare dietro, dargli spazio, accettare di spezzare lo sguardo con traiettorie perpendicolari inseguite dalla macchina da presa o false soggettive che invitano a una continua de-spettacolarizzazione dell’azione.

Grazie anche al contributo di Radek Laczuk, direttore della fotografia di horror/thriller clamorosi come Babadook e The nightgale, l’atmosfera decadente, annebbiata e sciolta in colori caldi del contesto urbano fa scivolare il film in una dimensione alta del simbolico, pratica e desiderio espressivo che in genere nel cinema italiano o non si fa o non si sa fare. E poi, ancor più importante, nel cupio dissolvi di diversi tradizionalismi borghesi (attenzione: chi vi si avventura poi crepa) in Enea viene pennellato un fulgido slancio weiriano verso un anelito di giovinezza da consumare in fretta, di midollo della vita da succhiare fino in fondo, anche se flirtando con gli stilemi sui generis del modello criminale nella fattispecie un boss generoso (Adamo Dionisi) propenso a disamine filosofiche e psicanalitiche. Infine, se ce ne fosse ancora bisogno, Enea è un film pieno di humor, di situazioni paradossali (la battuta del cuoco che sodomizza i pesci), di eccentriche ellissi che portano il tono dei dialoghi continuamente sopra le righe. Il film è l’deale ampliamento del romanzo di Castellitto, Gli iperborei (Bompiani).

Enea, il film di Pietro Castellitto è uno di quelli che tra qualche anno diventeranno di culto
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