Ci sono sottili zone di mondo ignote ai più dove si consumano atrocità non solo disumane, ma inimmaginabili, ancor meglio insopportabili alla stessa immaginazione. Tra queste è il confine immerso tra i boschi tra Polonia e Bielorussa, linea fisica, metaforica e simbolica di separazione tra l’Europa e la zona d’influenza russa, ancor più estensivamente la NatoO e ciò che vi sta fuori. Il luogo è diventato personaggio vittima/carnefice dell’imponente film di Agnieszka Holland, Green Border in concorso a Venezia 80 (da cui non uscirà senza un premio), a 30 anni dal suo pur scioccante Europa, Europa.
Un nuovo e forse ancor più audace pugno nello stomaco che, in un bianco e nero lapidario, non (si) risparmia nel mettere in scena la crudezza della realtà seppur attraverso la ricostruzione, perché forse è proprio nel cinema di finzione che le Verità vengono maggiormente a galla. Al centro dello sguardo polifonico di Holland, autrice pluripremiata polacca 78enne con una filmografia politica e sulla Storia di altissimo profilo, vi è essenzialmente la tratta dei profughi provenienti dal Sud del mondo che il regime di Lukashenko utilizza per provocare la Polonia, ovvero l’Europa e la Nato, ingannandoli in qualità di territorio safe-gate (il film inizia con l’atterraggio di siriani in territorio bielorusso) da dove hanno la garanzia di venire accompagnati oltre il confine polacco per poi dirigersi in varie località europee. In realtà il governo polacco di destra ha l’ordine di rispedire al mittente questi miserabili, che dunque ignobilmente vengono palleggiati attraverso un filo spinato di persecutoria memoria, vittime ignare oltre che innocenti di una battaglia nascosta che si combatte sopra e attraverso i loro corpi. Il paradosso vuole che sul confine polacco-ucraino, invece, i profughi della guerra in corso dovuta all’invasione russa siano benevolmente accolti dai medesimi militari guidati da Varsavia. Un comportamento opposto sintomo di un atteggiamento schizofrenico e ipocrita, ma soprattutto razzista.
Holland, che ha strutturato questo enorme affresco d’orrore umanitario e di denuncia politica su cinque capitoli (La famiglia, La guardia, Gli attivisti, Julia ed Epilogo) spiega le ragioni di questo film nella “impressione che il pericolo dei nazionalisti, dei totalitarismi etc sembravano evaporati dal radar europeo dopo l’orrore dell’Olocausto, percepito allora come punto più basso oltre il quale la ferocia umana non potesse andare. E invece oggi dobbiamo gestire un futuro che può essere – temo – simile a quello che abbiamo sperimentato in quel passato. Europa è il Dreamland, ma è anche il continente dei più terribili crimini contro umanità. Ecco perché esistono ancora due possibili modi in cui il nostro continente può dirigersi. Le crisi e le sfide che viviamo ora sono che rimetteranno in discussione il paradigma su cui si è formata l’Europa stessa”. “Politici, militari, migranti, rifugiati, attivisti e tutti quanti sono coinvolti in questa tragedia sono rappresentati nel film – continua Holland – Abbiamo scelto un approccio epico con diversi punti di vista perché dovevamo catturare la Storia in tutte le sue possibili complessità”.
Inutile rimarcare l’urgenza tematica di Green Border – appunto in progress e parallelo con la cronaca vista la guerra in corso che pure è motivo d’esistere del finale – utilissimo invece è sottolineare quanto la regista abbia fornito a questo dramma un carattere cinematico altissimo, che mescola movimenti di macchina in stile documentaristico a sospensioni poetiche sui corpi e volti feriti dalla Storia che agiscono da riflessioni simboliche. La foresta, luogo archetipico dell’orrore fiabesco, è concepita come un labirinto gotico, totalmente dark come l’anima che soggiace a quest’opera di straordinario respiro. Un film esemplare che, trovando ragioni nel passato, si concentra sul presente per farci capire cosa potrebbe verificarsi nel nostro futuro.