Il dialogo c’è, da che parte si orienterà e soprattutto come si concluderà è ancora molto presto per saperlo. L’ex presidente catalano Carles Puigdemont, in una conferenza stampa tenuta a Bruxelles, ha aperto il canale di comunicazione con la coalizione di centrosinistra guidata dal Psoe del premier Pedro Sànchez ma lo ha fatto indicando alcune condizioni necessarie per iniziare a trattare in cambio del voto favorevole per la formazione di un eventuale esecutivo. I sette scranni ottenuti alle ultime elezioni dal partito Junts per Catalunya, infatti, possono fare da ago della bilancia nella creazione di un nuovo governo a trazione socialista.
Tra le condizioni poste dal leader catalano, il “riconoscimento e rispetto della legittimità democratica dell’indipendentismo”; l’abbandono “completo ed effettivo della via giudiziaria contro l’indipendentismo” attraverso una amnistia per i dirigenti implicati nell’organizzazione del referendum del 1 ottobre 2017; un “meccanismo di mediazione e verifica” del rispetto degli accordi; il catalano come lingua ufficiale nelle istituzioni Ue, richiesta che il governo ha già avanzato all’Europa: il 19 settembre infatti, nell’ordine del giorno del Consiglio europeo, si affronterà anche questo punto. Temi che sono più che noti già dal giorno successivo alle elezioni politiche di luglio e tengono molto alta l’asticella del coefficiente di difficoltà per un accordo di governo finale. Ma la loro enunciazione (con tanto di destinatario) fa capire che Junts non si nasconde più e la trattativa può partire davvero in un momento in cui la situazione post-voto è ancora congelata poiché formalmente il presidente incaricato dal re Felipe VI è ancora il presidente del Partito popolare Alberto Núñez Feijóo, alla ricerca di voti dentro il Congresso che difficilmente arriveranno al numero magico di 176.
Puigdemont ha annunciato queste condizioni all’indomani della riunione con la leader di Sumar (formazione di sinistra) e vicepresidente del governo, Yolanda Diaz. Le reazioni non si sono fatte attendere. Lo stesso Feijóo – che guida il partito che governava al tempo dello scontro totale tra Madrid e Barcellona – chiude le porte a qualsiasi tentativo di intermediazione: “Se ci proporrà l’amnistia come requisito, ci possiamo risparmiare questo incontro, non avrebbe senso”. La portavoce del governo di coalizione di sinistra ribatte invece che “le nostre posizioni sono agli antipodi. Per affrontare questa situazione abbiamo uno strumento, il dialogo; un’impronta, la Costituzione; un obiettivo, la convivenza”. Il principale timore dell’esecutivo era infatti che Puigdemont esprimesse richieste troppo specifiche per permettere anche solo l’inizio di un dialogo, ma non è stato così: l’ex presidente ha parlato di “condizioni precedenti” a qualunque trattativa, in modo da sottolineare che non verrà data priorità ai requisiti che il Psoe reputa inaccettabili (come per esempio l’organizzazione di un referendum).
Le questioni poste da Puigdemont restano comunque molto complesse: difficilmente potranno realizzarsi nelle prossime settimane. Portare avanti una proposta di legge di amnistia per i dirigenti catalani coinvolti nel referendum del 1 ottobre 2017, per esempio, potrebbe richiedere molto tempo. Quello che il governo in carica può fare ora è inviare segnali di distensione, accelerare investimenti fermi ma lungamente attesi in Catalogna, studiare le modalità con cui verificare il rispetto degli accordi futuri. Intanto però i negoziati con il Psoe possono iniziare: senza nessuna forzatura da parte di Puigdemont né segnali di chiusura dal governo, la porta resta aperta.
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Nella foto in alto | Sànchez e Puigdemont in un’immagine di archivio del 2016