L’intervista che Giuliano Amato ha concesso a Simonetta Fiori de La Repubblica il 2 settembre ha immediatamente suscitato reazioni di ogni genere, molte delle quali del tutto improprie.
Il primo dato che balza agli occhi è l’autorevolezza di chi si pronuncia e la forma scelta. Amato, già Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, poi Presidente dello stesso, più volte ministro e infine Presidente della Corte Costituzionale, non è il primo che passa o un opinionista qualunque, così come l’uscita avviene in un’articolata intervista nelle prime pagine di uno dei principali giornali italiani, con la prestigiosa firma di Simonetta Fiori.
Il secondo dato che appare, ineludibile, è il rilancio della questione, la necessità di perseverare nella ricerca della verità. E questo appare il messaggio più forte: il bisogno di verità è urgente – anche se sono passati 43 anni – per i parenti delle vittime e per il paese, per la credibilità delle istituzioni e per la democrazia stessa.
A questo punto, non può che essere secondario elucubrare sulle ragioni che hanno spinto Amato a parlare in questo momento e in questi termini. Non è improbabile che Amato abbia valutato il momento più idoneo a pretendere risposte, finora eluse, dalle autorità francesi, in quell’inizio di settembre che ogni anno segna l’avvio della nuova stagione politica.
E d’altra parte non è il solo: anche recentemente, in occasione dell’anniversario dell’abbattimento del DC9 Itavia il 27 giugno scorso, non sono mancati pronunciamenti di grande rilievo. Quel giorno, poco più di due mesi fa, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si espresse con forza: “Una completa verità non è stata pienamente raggiunta nelle sedi proprie e questo rappresenta ancora una ferita per la sensibilità dei cittadini. I risultati ottenuti spingono a non desistere, a ricercare i tasselli mancanti, a superare le contraddizioni e rispondere così al bisogno di verità e giustizia”.
Una terza considerazione: Amato non ha detto nulla di nuovo, ha ricapitolato con metodo ciò che è già noto, e ha testimoniato circa la sua stessa esperienza. Fatti noti ma restituiti con parole tanto pesanti quanto importanti, parole di denuncia: “Da principio i militari si erano chiusi in un silenzio blindato, ostacolando le indagini. E quando da sottosegretario alla Presidenza ebbi un ruolo in questa vicenda, nel 1986, cominciai a ricevere a Palazzo Chigi le visite dei generali che mi volevano convincere della tesi della bomba esplosa dentro l’aeromobile. Era da tempo crollata la menzogna del «cedimento strutturale» dell’aeromobile e bisognava sostituirla con la tesi altrettanto falsa del «cedimento interno a causa dell’ordigno» (…) la nostra aeronautica era schierata in difesa della menzogna”; e ancora: “Generali che venivano a trovarmi a Palazzo Chigi per parlarmi della bomba”.
Emerge la tesi del doppio Stato, secondo la fortunata (e abusata) formulazione di Franco De Felice del 1989: una doppia lealtà, categorie utilizzate per interpretare le trame italiane delle stragi e del terrorismo, applicabili, con le dovute cautele e contestualizzazioni, anche alla vicenda della strage di Ustica. Amato afferma che i militari avevano una “doppia fedeltà”, alla Nato e alla Costituzione italiana. “Se tanti militari, tutti con incarichi ufficiali molto importanti, dicevano la stessa cosa palesemente falsa, dietro doveva esserci un segreto molto più grande di loro. Un segreto che riguardava la Nato”. Quindi, “non era del tutto irragionevole che i generali, per tenere al sicuro il segreto, si guardassero bene dal condividerlo con i politici”. D’altra parte, continua Amato, la politica “non aveva convenienza a sapere fino in fondo (…) In ogni modo la verità risultava scomoda. Ed era meglio lasciarla sepolta”.
Per parte sua, la Nato “in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani”. Infatti, non è sufficiente denunciare che i francesi abbatterono un aereo civile, uccidendo 81 persone; occorre anche dire in quale contesto lo hanno fatto e perché e con quali indulgenze o compartecipazioni da parte della Nato, che non poteva non sapere, che aveva certamente una copertura radar totale dei cieli del Tirreno quella notte.
Diversi commentatori apprezzano l’esortazione a chiedere alla Francia cosa accadde quella sera del 27 giugno 1980. Giustissimo. Ma attenzione, chiedendo alla Francia e alla Nato non eludiamo la questione italiana. È troppo facile porre il problema al di fuori di noi, così come valutando il terrorismo nero non manca chi si accomoda nella tesi delle responsabilità dei servizi segreti stranieri in tempi di guerra fredda.
Certo i francesi, così come gli alleati atlantici, ci devono risposte, ma esistono enormi responsabilità nell’occultamento dell’accaduto da parte italiana. Chi è stato reticente, chi ha distrutto prove, chi ha mentito, chi ha depistato era ed è italiano. È necessario non sottovalutare questo punto che emerge con chiarezza dall’intervista di Amato. Francia e Nato hanno responsabilità gravi circa l’abbattimento e circa silenzi e reticenze; ma l’Italia era il paese che avrebbe dovuto e potuto pretendere di conoscere la verità e avrebbe potuto e dovuto metterne a parte i propri cittadini.
Infine, le parole su Craxi, che hanno sdegnato alcuni, secondo i quali Gheddafi sarebbe stato avvisato di un pericolo soltanto in un’altra occasione dal leader socialista, nel 1986 quando questi era Presidente del Consiglio. “Avrei saputo più tardi – ma senza averne prova – che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani. Non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario”. Si obietta che Craxi allora era solo segretario di partito e deputato. Non crediamo possibile che Amato parli a caso o commetta errori grossolani, in tale affermazione si può forse cogliere un’inclinazione di quella particolare stagione storica della Repubblica, nella quale – ripetiamo, forse – un politico poteva aver a che fare con informazioni riservate e relazioni internazionali al di fuori di ogni ruolo nelle istituzioni di competenza. Un Craxi, tuttavia, disposto a salvare Gheddafi ma non altrettanto a chiarire la vicenda italiana: “Io ricordo che Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari”.
Sulla tragedia di Ustica, l’abbattimento di un aereo civile da parte di un missile di paesi alleati, quasi le stesse parole aveva usato Giuliano Amato in una videointervista condotta da Massimo Cirri e proiettata in occasione della presentazione del volume Ustica e gli anni Ottanta, promosso dall’Associazione dei parenti delle vittime della Strage di Ustica, il 27 giugno scorso. Oggi queste parole tornano forti e chiare, impegnative per tutti. Intanto, l’Associazione sta preparando un nuovo convegno di studi storici sull’Italia di quei giorni.