Il 15 novembre 1884 al numero 77 di Wilhelmstaße a Berlino si riuniscono, su invito del Cancelliere del Reich Otto von Bismarck, i rappresentanti delle cosiddette “potenze” del tempo: Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Impero Austroungarico, Belgio, Spagna, Portogallo, Olanda, Russia, Svezia-Norvegia, Danimarca, Turchia. C’è anche l’Italia, che ha molto insistito per essere invitata, anche se nessuno ne aveva avuto intenzione. Il motivo dell’allegra rimpatriata è letteralmente sotto gli occhi di tutti: una enorme ed approssimativa mappa del continente africano. La torta da spartirsi.
Quella che passerà alla storia come “Kongokonferenz” nasce dalla volontà delle potenze europee di regolamentare la libera navigazione del fiume Congo (e del Niger) sul modello di quanto avvenuto anni prima per il Danubio. In realtà, la posta in gioco è molto più alta: si tratta di stabilire il criterio in base al quale ciascuna potenza potrà rivendicare un determinato territorio potendo contare sul riconoscimento e il rispetto da parte delle altre, onde evitare pericolosi conflitti armati tra potenze europee su suolo africano.
Leggere gli atti della conferenza (digitalizzati e pubblicati gratuitamente dalla Biblioteca Digitale Tedesca) significa immergersi in un contesto storico e culturale in cui la superiorità del bianco rispetto al nero non è neanche argomento di dibattito: è un dato di fatto che nessuno si sogna seriamente di mettere in dubbio.
O forse sì – i distinguo arrivano da una fonte insospettata. Solo il rappresentante degli Stati Uniti, John A. Kasson, osa esternare qualche perplessità rispetto alle intenzioni delle potenze: non sarà forse necessario chiedere il consenso delle popolazioni locali, prima di occupare un territorio? Non bisognerebbe forse riconoscere in via generale l’autorità dei capi locali? Sarebbe forse opportuno non solo vietare la tratta degli schiavi, ma anche negare protezione a chiunque la pratichi? Kasson arriva addirittura ad affermare letteralmente che “E’ difficile trovare un motivo per giustificare, in questa nuova Africa centrale, l’esistenza di colonie che dipendano militarmente da potenze straniere.”
La storia prova che le sue considerazioni non ebbero quasi alcun effetto. Le potenze riunite a Berlino applicano alla lettera la tecnica del divide et impera, tracciando col righello confini del tutto arbitrari che sono ancora oggi – come dimostrano i recenti accadimenti nel Niger – fonte inesauribile di tensioni, guerre, genocidi.
Circa 60 anni dopo, esattamente 80 anni fa, mentre in Europa ancora infuria la Seconda Guerra Mondiale, nel ricevere un honorary degree dall’Università di Harvard, Winston Churchill pronuncia un discorso che sembra marcare un netto cambiamento rispetto allo spirito della Conferenza del Congo: “Gli imperi del futuro sono gli imperi della mente.” Certo, sempre imperi. Churchill ha in mente un mezzo molto specifico e concreto per conquistare le menti: la lingua inglese.
Grazie allo sforzo congiunto di Regno Unito e Stati Uniti, sarà possibile diffondere la lingua inglese in tutto il mondo, facendo sì che si imponga come principale mezzo di comunicazione tra i popoli. Per raggiungere l’obiettivo, Churchill istituisce addirittura un comitato di ministri con il compito di elaborare il “basic English”, ovvero una selezione di un migliaio di termini semplici e flessibili, sufficienti a sostenere qualsiasi conversazione.
Semplificare, omologare, disseminare. Non si tratta di mettere in dubbio la buona fede di Churchill che vedeva nell’inglese ciò che sicuramente è: uno straordinario mezzo di comunicazione. Ma, come lui stesso evidentemente sospettava, parlare una lingua significa anche pensare una lingua, pensare ciò che quella lingua permette di esprimere. E così rientra dalla finestra quella mentalità imperialista che sembrava essere stata scacciata dalla porta in seguito agli orrori dell’epoca coloniale e della Seconda Guerra Mondiale.
Questo significa che sia un male avere una lingua franca, che attualmente è l’inglese? Certamente no. Ma significa che, nel diffondere qualsiasi elemento della nostra cultura, il confine tra lo scambio culturale e la colonizzazione culturale è sempre labile, e gli europei hanno lungamente coltivato un vizietto (spesso inconsapevole) per la seconda.