Cinema

Festival di Venezia, Matteo Garrone vuol vincere il Leone d’Oro. Io Capitano è un film potentissimo

di Davide Turrini

Stavolta Matteo Garrone vuol vincere il Leone d’Oro. Dopo il Comandante (Favino-Todaro), il Commendatore (Ferrari) ecco il Capitano. Anzi, Io Capitano, film in Concorso a Venezia 80 ma anche urlo spropositato e trascinante che il sedicenne senegalese Seydou caccia al cielo giunto a poche miglia marine dalla Sicilia. Garrone (prima volta assoluta con un suo film a Venezia) si cimenta in una sorta di cinema d’avventura, euforico e disperante allo stesso tempo, sul viaggio epico degli adolescenti Seydou e Moussa (Moustapha Fall) da Dakar alle coste italiane, passando per il Malì, Agadez in Niger, il deserto libico e infine i campi di tortura e la battigia di Tripoli. Non c’è nulla di retoricamente accigliato e caritatevole nel racconto garroniano (qui allo script con Massimo Ceccherini e Massimo Gaudioso) anche perché per i due ragazzini l’Europa, anzi l’Italia, più che la fuga da una guerra o da una carestia, è uno scontato desiderio adolescenziale, terra dove poter cantare e diventare ricchi.

Seydou e Moussa non sono affatto indigenti, vivono “una povertà dignitosa” e soprattutto organizzano il viaggio di nascosto dai genitori, fingendo di giocare a pallone quando invece si spaccano la schiena come muratori per risparmiare soldi, andando pure contro ai consigli degli anziani e dello stregone del quartiere. La fuga inizia canonicamente in corriera con il sorriso sulla bocca, continua tesa tra doganieri corrotti e bagarini di formule all inclusive (hanno pure le foto di jeep e barche nuove di zecca) per attraversare migliaia di chilometri di deserto, e si conclude nella violenza e nel terrore tra sanguinari predoni e carcerieri. Chiaro, il rimando strutturale immediato è all’Odissea omerica, ma in Io Capitano c’è tanto lucido sadismo collodiano (garroniano?) di Pinocchio, come eccentriche nuance alla Grimm di Hansel e Gretel. In fondo è un ritorno alle origini del Garrone prima maniera – Primo amore e L’imbalsamatore – dove realtà e personaggi giunti all’estremo delle proprie azioni vengono/venivano sublimati in contorni e silhouette tendenti al fiabesco. Vedi anche la fragile e molle innocenza dei due protagonisti senza difesa alcuna, impossibilitati ad essere comunità solidale tra disperati come in una pagina qualunque di Dickens.

Intendiamoci, l’aspetto migratorio è realistico fino al parossismo, ma la messa in scena ha sempre qualche punto di fuga per non farci stare dentro agli interni di Hostel o de Il figlio di Saul. Vedi quella catasta di cadaveri senza facce nelle carceri delle torture, la sagoma lontana di un essere umano che cade all’improvviso dalla jeep in corsa, il tentativo magico di un cadavere che vola o quell’insistita ordalia di corpi indecifrabili sula nave della speranza che sembra un’esasperata e teatralizzata danza africana. Infine Garrone si supera nel momento in cui si affaccia e si tuffa in esterni che brulicano di comparse e si allargano a perdita d’occhio (scusate, ma sembrano i campi lunghissimi di molti film di Leone). Un lavoro sullo sfondo e sulla scena ancor più epico del viaggio in sé con sequenze notturne che lasciano senza fiato. Un film potentissimo, di diverse spanne sopra tutto il resto del Concorso veneziano.

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