Cinema

Morto Giuliano Montaldo, addio al regista di “Sacco e Vanzetti”, “Una bella grinta” e “Il giocattolo”. Così coniugò impegno civile e successo commerciale

Federico Fellini lo chiamava “Giulianone”. Gli amici addirittura “Maciste”. Alto alto, occhi chiari, dall’elegante portamento nobile pur facendo l’impiegato, il regista, attore e sceneggiatore genovese Giuliano Montaldo, l’ultimo dei grandi vecchi del cinema italiano del dopoguerra, ci lascia a 93 anni. Figura emblematica per capire cosa significasse far quadrare il cerchio tra impegno civile e successo commerciale nel periodo produttivamente d’oro, tra anni sessanta e settanta, del cinema in Italia. Figlio di un socialista, partigiani attivo con fazzoletto e mitra al collo a liberare Genova, pare incallito Don Giovanni e con il pallino della recitazione, Montaldo da regista è sempre stato molto attento alla riconoscibilità delle strutture di genere, dotato di buona tecnica, estremamente attento ai dettagli e ai significati storici delle proprie opere.

L’esordio nel 1951 come attore nel rocambolesco primo lungometraggio di Carlo Lizzani, Achtung! Banditi! Forse il titolo più celebrativo della Resistenza armata al nazifascismo in Italia dove l’aitante “Giulianone”, chiamato da Lizzani, ebbe subito un ruolo di rilievo – è uno dei due comandanti partigiani – assieme alla Lollo, ad Andrea Checchi e al Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette; ma allo stesso tempo, iscrivendosi alla Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografica nata per l’occasione grazie alla sottoscrizione di quote per produrre il film da parte della crew che vi partecipò, si dedicò anche all’organizzazione della produzione sul set. Altri tempi, anche se molto genuini e appassionati. La Cooperativa finisce nel nulla, Montaldo per una decina d’anni recita come attore per grandi registi (Emmer, Maselli, ancora Lizzani in Cronache di Poveri Amanti) e poi l’esordio nel 1961 con un film controverso (ma bellissimo) che finisce anche al Festival di Venezia: Tiro al piccione, tratto dal romanzo di Giose Romanelli. Solita storia: al centro del libro e del film c’è un repubblichino piuttosto tentennante che non diventa mai un invasato ma nemmeno abiura, che si innamora di un infermiera, fugge verso la Svizzera ma diventa uno sbandato. Come è scritto sul Mereghetti “un film coraggioso e anticonformista” che consente a Montaldo, uomo di idee social comuniste ma mai con la tessere del PCI in tasca (il consiglio pare fosse di Zavattini) di mostrarsi figura impegnata ma libera.

Ecco allora una sorta di autentico e concitato thriller, Una bella grinta, con protagonista un industriale (Renato Salvatori) esasperato dal profitto e dall’espansione della sua azienda fino al fallimento a cui dà risposta sbarazzandosi di concorrenti e rivali. Nel 1969 dirige un misconosciuto gangster movie di respiro internazionale, Gli Intoccabili, che ha nel cast John Cassavetes fresco di Rosemary’s baby, Gena Rowlands, Peter Falk, Gabriele Ferzetti e Florinda Bolkan. Il film ha un ritmo forsennato e fila liscio come fosse girato ad Hollywood. Anche God mitt uns nel 1970, fuga infangata e pericolosissima di due ufficiali tedeschi dal fronte occidentale verso la Germania (ci sono Franco Nero e Bud Spencer), è un altro tassello di un talento poliedrico che, come Lizzani, sa gestire le forme base e popolari del cinema di genere. Del 1971 è Sacco e Vanzetti, altra avventura produttiva con soldi italiani, girato per qualche scena a Boston, poi in Irlanda e in ex Jugoslavia, come tutti ricordano è il racconto sulla messa a morte sulla sedia elettrica dei due anarchici italiani nell’America degli anni venti.

Grazie anche all’interpretazione magistrale di Riccardo Cucciolla (Palma d’oro a Cannes) e Gianmaria Volontè, nonché alla colonna sonora di Morricone che contiene il trascinante brano di Joan Baez, Here’s to you, il film infiamma animi, folle e botteghini. Gli anni settanta, quindi, sono l’apice del cinema di Montaldo: nel 1973 prende nuovamente Volonté per fargli interpretare Giordano Bruno, poi ancora recupera il testo sulla Resistenza della Viganò e gira L’Agnese va a morire con protagonista la bergmaniana Ingrid Thulin, Michele Placido, Stefano Satta Flores e Flavio Bucci, poi chiude il decennio con Il giocattolo prodotto da Sergio Leone, con protagonista il pacifico Nino Manfredi che si ritrova gambizzato e si difende acquistando e imparando ad usare un’arma per difendersi. Un carattere che fluttua tra Un borghese piccolo piccolo e il futuro Giustiziere della Notte, ma su un articolato e sfumato tappeto di scrittura. Nei primi anni ottanta si dedicherà alla televisione e lo farà girando uno dei più memorabili sceneggiati di quel decennio: Marco Polo, una coproduzione italo spagnola che finì in prima serata anche sulla CBS statunitense.

Nel 1984 partecipa al documentario collettivo L’addio a Berlinguer, sulla morte del leader del PCI e ancora degni di nota sono Gli occhiali d’oro con Philippe Noiret e Tempo di uccidere tratto da Flaiano. Negli anni novanta comincia una lunga pausa dalla regia, che passa prima da due interpretazioni inattese e divertenti come quella ne Il Caimano di Nanni Moretti e in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni. Riprende in mano la macchina da presa senza più a grinta di un tempo per I demoni di San Pietroburgo dove rispolvera Dostoevskij e ne 2011 con L’industriale con protagonista Favino, una sorta di reboot di Una bella grinta con variazioni più melodrammatiche, come oramai l’autorialità pretende in Italia negli ultimi vent’anni. Montaldo è stato sposato con l’attrice e produttrice Vera Pescarolo per oltre 60 anni.