Al giro di boa di quest’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia costellata da attori scioperanti e altri polemici voglio dare uno sguardo a quello che mi piace considerare cinema operaio. Che guarda cioè al fare dell’immagine un messaggio attraverso un lavoro certosino. Un laboratorio artigianale, alle volte economicamente impossibile. Talune anche brutto, dobbiamo ammetterlo, ma ottenuto da urgenze concettuali che il più delle volte fanno esclamare. Guai a non esclamare dopo un film, significherebbe indifferenza.
Così la Settimana della Critica restando quest’anno più fedele del solito all’elemento sguardo, sta proponendo esordi registici come God is a woman, film d’apertura di Andres Peyrot. In un villaggio panamense la comunità matriarcale dei Kuna ha aspettato per 50 anni un documentario mai ultimato da un regista premio Oscar francese. Le bobine gli furono confiscate nel 1975 dalla banca che esaurì i fondi. Alla prima proiezione di quest’avventura alla ricerca del materiale disperso lo sguardo si schiude sul passato di uomini e donne che rivedono com’erano da piccoli, le persone che non ci sono più, il racconto della loro terra tra colori intensi di pantone ed emozioni. È una vera e propria archeologia del cinema questa co-produzione tra Francia, Svizzera e Panama, un viaggio nel tempo guardando il grande schermo. Una magia che di tanto in tanto faremmo bene a ricordare. La memoria incastonata nel presente sotto forma di pellicola deteriorata viene accolta dalla tecnologia del montaggio digitale illuminando anche gli occhi giovani delle nuove generazioni che guardano al nuovo millennio con e senza mascherina anti-Covid.
Si prospetta come un viaggio nel tempo anche Hoard, della britannica Luna Carmoon. Negli anni ottanta la piccola Maria vive con una madre dagli evidenti problemi di accumulo seriale. Bimba e adulta in un nido barricato e surreale di fantasie accomodanti la realtà. A dieci anni dal distacco troviamo una ragazza, Saura Lightfoot Leon (talento ipnotico) con le sue speranze e la sua lotta inconscia contro un passato traumatico. Qui però la memoria suona note di disagio e rimozione.
L’affido ad una signora equilibrata, Samantha Spiro, e la frequentazione di un giovane, Joseph Quinn (rimpianto astro nascente di Stranger Things da tenere d’occhio) le fanno da argine, ma quanto riuscirà a resistere? Affascinante nel suo new-british-realism il pastiche con tre attori dirompenti nella loro naturalezza senza fronzoli. Carmoon ci pone con audacia sul crinale di un’adolescenza femminile spingendoci a riflettere sulla devianza e le sue rifrazioni sugli affetti. Ricostruzioni sceniche meticolose nel set tanto nel lavoro con il cast fanno di quest’opera prima una rivelazione per il suo magnetismo disturbante. E dopo Russell, Loach e Pasolini, forse abbiamo una nuova autrice che inizia il suo cammino guardando alla società della sua Inghilterra attraverso la macchina da presa con fermezza e senza indulgenza.
Dobbiamo invece spostarci sulle pagine di un vecchio romanzo del cugino di Tolstoj per comprendere appieno The Voudarlak, un horror a tinte gotiche di Adrien Beau. La famiglia del Voudarlak di A.K. Tolstoj (non Lev) aveva preceduto addirittura il Dracula di Stoker sulla trattazione del vampiro nella letteratura occidentale moderna. Beau utilizza una cinepresa a 16mm per un’atmosfera retrò perfettamente credibile. Il suo vampiro è realizzato con un burattino e sembra davvero di guardare un film di fine anni Sessanta.
Pure encomiabile l’esercizio di stile intorno alla rimodulazione della storia originale per tendere alla distruzione del patriarcato rappresentato da quest’uomo che ritorna trasformato in vampiro dalla guerra in Turchia, ma sa di revival dall’appeal limitato. Qui inoltre il nostro Jonathan Harker è un nobile di ritorno a Parigi bloccato da un furto e riparatosi in una casa di contadini slavi. Nonostante una messa in scena impeccabile dal punto di vista della rievocazione storica di un cinema del secolo scorso, Beau non riesce a farci paura, né mette reali inquietudini, resta concettuale lasciandosi guardare così come si leggono certi vecchi libri impolverati. Magari starnutendo.
Dalle parti delle Giornate degli Autori e più precisamente alle Notti Veneziane invece si è visto tra gli altri il doc di Irene Dorigotti. Cresciuta con i valori dello scoutismo segue con passione la domanda: “Che cos’è il sacro?” la regista torinese prima di tutto è antropologa visuale, infatti il suo film costituisce la punta dell’iceberg di un percorso di studio ed esperienze interiori ben oltre il semplice pellegrinaggio, ma attraverso. E Across costituisce il diario spirituale di questo viaggio d’interrogativi sussurrati in un confessionale o circumnavigati dalla voce narrante e legnosa di un uomo anziano. Non si tratta esattamente di road movie quanto più uno scout movie alla ricerca non della fede ma della congiunzione tra essa e la vita sociale. È stato girato tra Sicilia, Piemonte, Svizzera, Sardegna, Vietnam, Cambogia, Messico e Matera, arricchendosi di uno sguardo rivolto tanto al mondo e alle sue religioni, quanto ai colori intangibili dell’anima.
Buone intenzioni e tanto cuore, ma sul grande schermo non lascia il segno.