Cinema

Lubo, Giorgio Diritti racconta la terrificante pulizia etnica in Svizzera fino al 1972. Nel cast Franz Rogowski

di Davide Turrini

“Ho visto anche degli zingari felici”. A guardar bene Lubo, il quinto lungometraggio in 18 anni di Giorgio Diritti, in Concorso a Venezia 80, ti accorgi che non sembra un film “alla Diritti”. Prima un trauma individuale, poi un decisivo scambio d’identità, infine uno stringato j’accuse politico prendono una strada piuttosto differente rispetto alla tensione dialettica tra spirito e materia dei precedenti film del regista bolognese. Lo sguardo di Diritti accompagna la fuga di Lubo Moser (Franz Rogowski, attore spontaneamente sdoppiabile), uno jenisch o zingaro bianco, saltimbanco con moglie, figli, carrozze e animali che nel 1939 viene chiamato a difendere il confine svizzero dalla possibile invasione nazista. Abbandonati i suoi familiari, disperso a fare da piantone in un imbiancato paesino di montagna, Lubo viene a sapere che la moglie è stata uccisa dai gendarmi. Questi le hanno strappato i figli per poi farli rieducare in quello che diventerà un tentativo eugenetico di pulizia etnica denominato Kinder der landstrasse. Lubo farà di tutto per ritrovarli anche commettendo un omicidio e rubando. Ed è proprio in questa nuova casuale condizione di uomo ricchissimo (“ne ha per sopravvivere bene per il resto dei suoi giorni”), tutto salotti, cene e incontri nell’alta società di Zurigo, Bellinzona e poi nell’italiana Verbania (a proposito: gran lavoro di location altro che Ferrari di Mann) come generoso uomo d’affari in oggetti preziosi, che il protagonista invece dello struggersi classico dei dropout dirittiano, si trova parecchio a suo agio.

Animalesco, irrequieto, finemente magico, Lubo in elegante giacca e cravatta fa strage di cuori e (altra novità nel cinema di Diritti) consuma rapporti carnali lasciando una scia di amanti di ogni età e ceto sociale – da ricche signore a cameriere – straziate nell’anima. Va anche detto che in un film di tre ore abbondanti, il blocco dello scambio d’identità arriva dopo non tanto e dura parecchio, un’oretta e qualcosa di più, diventando centrale e centripeto per l’economia dell’opera fiume. In certi momenti ti dimentichi quasi che Lubo stia disperatamente cercando tracce dei suoi figli, spacciandosi per benefattore di istituti scolastici privati dove potevano essere stati deportati. E questo non è necessariamente un male, anzi. Diritti affronta il blocco centrale di Lubo con puntuale maestria tecnica, in modo esteticamente aggraziato, non cambiando mai passo sì, ma lasciando che l’alone di mistero attorno all’identità fittizia del protagonista diventi sempre più flebile e sottile. A quel punto quando l’epopea dello zingaro iroso ma comunque un po’ felice sembra chiudersi (qualcuno pare riconoscerlo, un rapporto di sesso diventa di grande amore) ecco che giunge un lungo finale, finanche precipitoso, dove si spinge in superficie il dato storico da stigmatizzare. È qui che Lubo funziona meno. Sembra un paradosso: chissà magari con mezz’ora in più di girato, quasi quattro ore di film, con qualche vuoto e silenzio in più, si sarebbe sentito meno lo scarto. Ad ogni modo nel finale emergono i dettagli reali della terrificante pulizia etnica compiuta da uno stato democratico come quello svizzero tra gli anni trenta e il 1972: probabilmente 2000 bambini tolti alle coppie jenisch per essere rieducate in collegi, poi adottati non senza episodi tragici di fuga, violenza e pedofilia.

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