di Isabella Fiore
In queste ore il dibattito, successivo ai fatti di Caivano, è incentrato sull’abbassamento dell’età di incarcerazione per i rei di età inferiore ai 18 anni.
Di colpo si sono azzerate le proposte di innalzamento dell’obbligo scolastico così come le preoccupazioni per l’incedere della povertà educativa, figlia degenere della mortalità scolastica. Un fenomeno, questo, che affonda le radici nella rottura del patto educativo tra Stato e nuove generazioni. Patto scritto nella legislazione ma di fatto negato, che porta il nome di “Diritto allo studio”. Una, e penso la più importante, ragione di allentamento del processo di scolarizzazione e di formazione è consistita nella convinzione delle classi dirigenti di questo paese che si potesse investire di meno riducendo risorse umane e materiali, ritenendo che il processo di trasmissione dei saperi, peraltro oggi più efficace con l’avvento delle nuove tecnologie, stimolasse tout court le modificazioni del comportamento dei ragazzi.
Non ci vuole il genio della lampada per comprendere che l’acquisizione del sistema metrico decimale non comporta l’automatica maturazione della capacità di integrare le competenze acquisite e di socializzarle. Ci vuole altro! Occorre che le classi abbiano un numero di alunni ridotto rispetto alle classi pollaio dove l’interazione tra gli alunni e tra alunni ed educatori (insisto nel chiamare così i docenti) diventa un’impresa sia per ragioni sociometriche sia perché le attenzioni, nella scuola del nozionismo, si riversano sui più bravi a scapito dei meno bravi.
Un tempo si parlava di educazione permanente e ricorrente come patto armonioso tra scuola, famiglia e società. Oggi che i buoi sono usciti dalle stalle, Salvini e company invocano le armi della repressione come mezzo per togliere i ragazzi dalla strada, non comprendendo che la pedagogia e la cultura, più dei netturbini, possono tenerla pulita e lontana dalla marginalità e dal malaffare.