Ogni anno o due andrebbe istituito per legge un documentario ricordo su Enzo Jannacci. Qui al Lido di Venezia è passato Fuori Concorso, Enzo Jannacci – Vengo anch’io di Giorgio Verdelli. E come sempre, ogni volta che sbuca un video dove Jannacci borbotta, si sbraccia, saltella, rimaniamo incollati allo schermo e diventiamo improvvisamente felici. Verdelli, già capace di un uno-due su Paolo Conte ed Ezio Bosso nel ’20 e ’21, sa cogliere ed esporre con brillantezza l’anima dei suoi biopic celebrativi. Con Jannacci basta una strafugnata per far emergere dalla lampada il genio stralunato, folle, popolare e romantico. Stringimi, sgonfiami, stracciami, cantava con Cochi e Renato in Silvano (e qui vediamo anche un bianco e nero in sala registrazione dove i verbi abbondano; per la cronaca vengono scartati sdentami e stroncami, proposti da Pozzetto).
Del resto Jannacci non puoi più raccontarlo ricominciando da capo. Devi recuperarlo estrapolando tracce, lampi, acuti, sguardi, mugugni, apparizioni. Da quelle con gli occhialoni dalla montatura spessa e nera anni sessanta (quelli che indossa ne L’udienza di Ferreri, per dire), quelli tartarugati dei live a colori inizio ottanta, quelli con la montatura sottilissima argentata degli ultimi concerti con il figlio Paolo. Verdelli piazza sì un paio di chicche, che in Toscana definirebbero ganze: c’è una rappresentazione di Aspettando Godot a teatro con Jannacci, Paolo Rossi, Giorgio Gaber e Felice Andreasi (l’aneddoto lo racconta Paolino e mostra il clima, quel clima, dei sessanta/settanta, che non esiste più); ma anche i frame di lusso con Vasco Rossi, docilissimo e commosso fan di Jannacci, che prima ricorda come Quelli che… sia stata la base su cui Vasco ha scritto Siamo solo noi e poi legge fiero e col groppo in gola una struggente lettera scritta a penna, con tanto di ghirigori, cancellazioni e sostituzioni, che il cantante milanese gli aveva spedito poco prima di morire.
A questo punto quando andrete a vedere il documentario, nelle sale italiane l’11, il 12 e il 13 settembre, potete scegliere qualche filo del discorso da annodare attorno all’eclettismo fuori dagli schemi jannacciano: la linea di Via del Campo che lo lega a De André; l’aspetto goliardico fuori dal set e giù dai palchi (il punturone di Campari all’Abatantuono febbricitante); la saggezza da medico chirurgo quale era qui sull’errore di Andreasi a teatro “un vuoto di memoria sempre meglio in teatro che in sala operatoria”; la vena compositiva inimitabile e inqualificabile. E qui apriamo le ultime due parentesi. La ricerca naturale e profonda nel grande cesto simbolico della canzone popolare da Ho visto un re ai brani in dialetto milanese tra cui Faceva il palo, ingiustamente segregata nei piani meno nobili del nostro. Poi la capacità di improvvisare versi senza pensarci un istante. Vedi “l’avvenire è un buco nero in fondo al tram” che appare in Io e te, uno dei risultati spontanei e istintivi del talento di Jannacci, parecchio invidiato dai coevi amici e non. Nobilissimo gesto di Verdelli nell’intervistare Ranuccio Sodi, autore nel 2015 del primo e notevole documentario su Jannacci, Lo stradone col bagliore.