Società

Gaetano Salvemini fu forse il più attento interprete della questione meridionale

Gaetano Salvemini, parlamentare socialista attivo nella prima metà del XX secolo, era nato a Molfetta l’8 settembre del 1873; ricorre quindi quest’anno il 150esimo anniversario della nascita. Ricordare la stagione dell’Italia post-unitaria è importante, soprattutto per rendersi conto della miseria della politica attuale: Salvemini fu un grande intellettuale antifascista, costretto a riparare all’estero durante la dittatura; la raccolta completa dei suoi scritti, pubblicata da Feltrinelli nel 1963, consta di 18 volumi. E’ difficile credere che la raccolta degli scritti di un qualunque esponente politico attuale riuscirebbe a riempire un solo volume.

In questo post considererò soltanto quella parte del pensiero di Gaetano Salvemini che riguarda la questione meridionale, della quale egli fu forse il più attento interprete dall’unità d’Italia ad oggi. Il meridione d’Italia, nel momento dell’unità, era certamente già povero soprattutto in rapporto allo sviluppo industriale e dell’infrastruttura; ma era autosufficiente grazie alla produzione agro-alimentare, e il debito pubblico dello stato borbonico era inferiore a quello del Piemonte. La miseria delle zone interne della Basilicata e della Sicilia era stata descritta da Giustino Fortunato, e dai parlamentari Franchetti e Sonnino, le cui opere mantengono a tutt’oggi il più grande interesse; questi autori avevano soprattutto notato la natura aspra del territorio e la sua scarsa e poco efficiente rete di comunicazione che impediva il commercio e lo sviluppo.

Salvemini andò oltre, compiendo una analisi di profondità ineguagliata. Riconobbe tre ulteriori e distinti problemi del meridione: uno, comune al resto d’Italia, nelle politiche di uno stato disattento, lontano, impegnato in imprese militari piuttosto che nel governo dei suoi cittadini. Il secondo problema identificato da Salvemini stava nell’impoverimento causato da una politica fiscale che avvantaggiava l’industrializzazione del nord a discapito del sud: nelle parole di Salvemini “l’alta Italia possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25% e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%.” Il terzo problema del meridione stava nella sua struttura socio-economica semi-feudale, nei latifondi mal coltivati, nella rapacità dei nobili e nella scarsezza numerica della borghesia imprenditoriale.

Salvemini nutriva grandi speranze nell’alleanza tra il proletariato operaio del nord e il proletariato contadino del sud; ma tutti gli interventi successivi a favore dello sviluppo del meridione hanno avuto successi limitati, e l’imprenditoria di stato non è riuscita a coltivarne e svilupparne una privata che la sostituisse e si affrancasse dalle misure assistenziali; probabilmente una classe di media borghesia imprenditrice si poteva sviluppare soltanto in un periodo storico pre- o proto-industriale e crearla dal nulla in epoca industriale o post-industriale è molto difficile: ogni fenomeno sociale inizia nelle condizioni storiche che gli sono propizie.

Salvemini fu particolarmente attento al fenomeno della criminalità organizzata, della quale intuì il ruolo di cinghia di trasmissione tra il potere politico centrale e il controllo delle masse popolari. In questa analisi si dimostrò particolarmente lungimirante, in considerazione del fatto che la relazione tra mafia e politica era all’epoca in una fase di evoluzione. Il primo omicidio mafioso di un grande esponente politico, Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia, che aveva tentato di opporsi alle manovre speculative politicamente sostenute dal Senatore Raffaele Palizzolo, sospettato di collusione con la mafia, si era consumato nel 1893. La mafia, che esisteva da tempo, con l’unità d’Italia cominciava ad adattarsi ad una monarchia costituzionale, che eleggeva i suoi parlamentari su tutto il territorio nazionale.

La cosa che più colpisce il lettore moderno negli scritti di Salvemini, come di molti altri esponenti politici dell’epoca, è la profondità e la schiettezza dell’analisi sociologica: Salvemini non si fa scrupolo di criticare, quando lo ritiene giustificato, non solo i parlamentari sia avversari (sua la definizione di Giolitti “ministro della malavita”) che alleati, ma anche il popolo e gli elettori. La politica attuale considera l’elettore come un cliente, che “ha sempre ragione”; e questa è la base del populismo. Salvemini invece nel suo meridione sottoponeva ad una critica serrata non soltanto i latifondisti e gli intermediari (i gabellotti), ma gli stessi proletari e contadini: “Ad essi manca la cultura necessaria per costituire un partito indipendente; manca specialmente l’esempio del proletariato industriale”.

Per approfondire:
Salvemini G., Movimento socialista e questione meridionale (scritti 1896-1952) a cura di Gaetano Arfé;
Fortunato G., La questione meridionale e la riforma tributaria (1920);
Franchetti L., Sonnino S., La Sicilia nel 1876.