È una sentenza potenzialmente pesante per l’amministrazione Biden quella emessa venerdì dalla quinta sezione della Corte d’Appello degli Stati Uniti. Da una parte la decisione del collegio composto da tre giudici nominati dai presidenti repubblicani alleggerisce l’ingiunzione temporanea emessa dal giudice distrettuale Terry A. Doughty, voluto da Trump, che imponeva ben dieci divieti all’azione dei funzionari governativi, cancellandone nove e conservandone, rivedendolo, solo un decimo. Dall’altra, però, conferma la tesi repubblicana sull’influenza esercitata da Casa Bianca, alti funzionari sanitari del governo e FBI sull’operato dei social network riguardo ai post pubblicati anche da esperti e legislatori sulle norme per contrastare la pandemia di coronavirus: Washington potrebbe aver violato il Primo Emendamento spingendo le piattaforme a cancellare o depotenziare l’efficacia di alcuni messaggi social.
Per capire l’entità di questa decisione della sezione formata dai giudici Edith Brown Clement, Don R. Willett e Jennifer Walker Elrod, è necessario tornare indietro al 4 luglio scorso. È in quella data che Doughty ha preso una decisione che è andata a colpire diversi dipartimenti e agenzie governative imponendo 10 divieti specifici ai relativi funzionari. Una decisione che di fatto bocciava su tutta la linea l’operato di Washington nel rapportarsi con le grandi compagnie che operano nel campo dei social media. La Corte d’Appello ha rivisto però questo provvedimento, limitando enormemente i suoi effetti sull’azione dei funzionari, seppur riconoscendo l’illegittimità di alcuni comportamenti: nove di questi divieti sono stati infatti respinti, mentre il decimo è stato modificato per limitarlo a evitare gli sforzi volti a “costringere o incoraggiare in modo significativo le società di social media a rimuovere, eliminare, sopprimere o ridurre, anche attraverso l’alterazione dei loro algoritmi, i contenuti pubblicati sui social media contenenti contenuti protetti”.
Una ‘vittoria mutilata’ per i conservatori, che in vista delle elezioni Presidenziali 2024 puntavano a sferrare un duro colpo al principale candidato democratico e presidente in carica su due dei temi più caratterizzanti della narrativa trumpiana: l’approccio nella lotta al coronavirus e la libertà di espressione. Una decisione che, comunque, non permetterà ai Dem di evitare inevitabili critiche. Tanto che il Dipartimento di Giustizia sta in queste ore meditando su un possibile ricorso alla Corte Suprema, nel tentativo di smantellare definitivamente la decisione dei giudici.
Le motivazioni della sentenza d’appello, infatti, entrano nello specifico dei presunti illeciti commessi dai funzionari governativi. Da quanto si legge, la Casa Bianca “ha costretto le piattaforme a prendere le loro decisioni di moderazione con messaggi intimidatori e minacce di conseguenze negative”. Hanno anche scoperto che Washington “ha incoraggiato in modo significativo le decisioni delle piattaforme interferendo sui loro processi decisionali in violazione del Primo Emendamento”.
Il tutto, sostengono i Repubblicani, per influenzare il discorso pubblico in favore della narrazione proposta dall’amministrazione. I giudici hanno rilevato che le pressioni della Casa Bianca e del CDC hanno influenzato il modo in cui le piattaforme social hanno gestito i post sul Covid-19 nel 2021, incoraggiando il pubblico a vaccinarsi. Nello specifico, si parla di numerose email e dichiarazioni di funzionari della Casa Bianca che, secondo loro, dimostrano l’esistenza di un sistema fatto di minacce e pressioni sulle società affinché affrontino la disinformazione sul Covid. I giudici affermano che i funzionari “non sono stati timidi nelle loro richieste”, chiedendo la rimozione dei post “al più presto” e apparendo “persistenti e arrabbiati”.
Anche l’operato dell’FBI è finito sotto la lente dei giudici e in questo caso anche per pressioni riferite a contenuti social di tutt’altra natura: non solo relativi alla pandemia, ma anche sugli aggiornamenti ai loro termini di servizio sulla gestione dei materiali compromessi, in seguito ad avvertimenti di operazioni di hackeraggio sponsorizzate da Stati stranieri.