di Lidia Fersuoch*
Si è aperta ieri a Riyad la 45a sessione del World Heritage Committee, dove per la seconda volta l’Unesco, o meglio i suoi organi tecnici, tenteranno di far iscrivere il sito Venice and its Lagoon nella lista dei siti in pericolo. La strada per ottenere questa speciale tutela (perché così deve esser letta) ha avuto inizio nel 2011, quando l’associazione nazionale Italia Nostra inviò tre lettere a Kishore Rao, direttore del Word Heritage Centre dell’Unesco, per chiedere l’iscrizione del sito nella Danger List, motivandone le ragioni. Rao inviò una lettera di ringraziamenti e il Word Heritage Centre si mise al lavoro.
Il tema di Venezia irruppe nella sessione dei lavori del Committee che si svolgeva a Doha nel 2014; seguirono quattro decisioni dello stesso Comitato e due missioni in loco di esperti, finché nel 2021 a Fuzhou, nella 44a sessione dello stesso Committee, gli organi tecnici dell’Unesco presentarono la bozza di decisione (Draft Decision) in cui si iscriveva il sito nella lista dei siti in pericolo. A sorpresa, un emendamento proposto dal rappresentante dell’Etiopia, in ottimi rapporti di collaborazione con l’Italia, cancellò nel testo le parti scomode per il governo italiano, compresa l’iscrizione nella Danger List.
E ora, a fronte del solito, costante peggioramento della situazione veneziana (un indicatore? i posti letto turistici hanno superato quelli residenziali), si riparla nuovamente dell’Unesco e delle sue prossime decisioni.
Per non entusiasmarci troppo e infondatamente, è opportuno vedere da vicino come funziona questa fantomatica ‘Unesco’, che non è un corpo unico solidale, ma risulta formato da più organismi, spesso confliggenti perché mossi da scopi diversi.
Fondata nel 1945, l’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, dopo il successo negli anni ’60 del secolo scorso del salvataggio e della traslazione dei monumenti nubiani condannati dalla costruzione di una diga, immaginò un’altra campagna conservazionista, su ben altra scala: la tutela di quei beni culturali e naturali riconosciuti come irrinunciabile espressione dell’umanità intera e connotanti il pianeta. Nel 1972, 20 Stati aderenti all’UN sottoscrissero la Convention concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage (o World Heritage Convention) in cui si impegnavano a tutelare i siti iscritti in una lista formulata da loro stessi.
Espressione di un sentire fortemente condizionato dai traumi della Seconda guerra mondiale, quindi datato, forse velleitario, e, dopo molte correzioni, tuttora sbilanciato (“too White and European”), è ancora riconosciuto da molti come il più importante strumento per la salvaguardia del patrimonio mondiale, sebbene le voci critiche si siano fatte sempre più forti.
La Convention istituì un’assemblea degli Stati aderenti, impegnati nel delineare le liste, il World Heritage Committee, formato da una rappresentanza di 21 Stati eletti dalla biennale General Assembly di tutti gli Stati sottoscrittori. Il Committee si riunisce a cadenza annuale, coadiuvato da un organo consultivo (gli Advisory bodies) composto da Icomos (International Council on Monuments and Sites), Iccrom (International Centre for the Study of Preservation and Restoration of Cultural Property) per i beni culturali, e Iucn (International Union for Conservation of Nature) per quelli naturali. Nel 1992, a coordinamento delle attività di studio e analisi degli Advisory bodies e con compiti organizzativi, venne istituito il World Heritage Centre, con sede a Parigi.
La responsabilità delle liste è totalmente in mano agli Stati sottoscrittori e in particolare ai 21 del Committee (dove l’Italia si è premurata di farsi eleggere all’indomani dello scampato pericolo di Fuzhou). Piuttosto che alla conservazione e alla tutela, i 21 Stati membri di tale oligarchia sono interessati principalmente a iscrivere nella lista propri siti, ritenendo di guadagnare prestigio internazionale, con ricadute notevoli in termini di visibilità e appetibilità dei luoghi, lanciati sulla piazza dei prodotti turistici più agognati dall’umanità intera. La lista da mezzo di tutela si è rivelata strumento di distruzione.
I rappresentanti dei 21 Stati, che come dall’articolo 9 della Convention dovrebbero essere scelti tra gli esperti in conservazione del patrimonio culturale o naturale, arrivano invece dalla diplomazia, e dunque sono ben attrezzati nel tutelare i presunti interessi nazionali. Nel Committee prevalgono alleanze strategiche e un vero «mercato di scambi di favori tra Paesi» (come dichiarò Francesco Bandarin, già direttore del World Heritage Centre, all’indomani di Fuzhou). Kishore Rao nel 2010 aveva considerato il conflitto di interesse degli Stati – giudici di sé stessi – «one of the greatest ironies of the World Heritage process and one that runs counter to the spirit of the Convention». Tutto ciò ha creato una grave crisi di autorevolezza e affidabilità della Convention, che sta minando la credibilità dell’Unesco stesso.
Si può stimare che nel 2021 la percentuale di scostamenti tra le proposte degli Advisory bodies, cioè le Draft decisions, e le Decisions finali fu di quasi il 40% per le nuove nomine, di quasi il 5% per l’analisi dello stato di conservazione dei siti esaminati, di quasi il 4% per la Danger List (ma ben il 100% in relazione alle nuove iscrizioni: nessuno dei 7 siti ritenuti in pericolo venne iscritto). Si può fare una previsione di come andrà la 45a sessione e di chi verrà in soccorso dell’Italia?
Secondo gli studi di Bertacchini, Liuzza, Meskel e altri, gli Stati più agguerriti nel tutelare i loro interessi nazionali e nell’opporsi agli organi tecnici sono i Brics, che quest’anno hanno allargato la loro sfera strategica. Nel Committee ci sono 7 tra Brics (India, Russia e Sudafrica) e membri dal 2024 (Argentina, Egitto, Arabia Saudita ed Etiopia). A Riyad hanno un sito nella Danger List un candidato alla stessa lista, un altro potenzialmente in pericolo (entrambi russi), e presentano 7 nuove nomine, alcune ritenute immature e quindi da differirsi. Altri 7 Stati necessitano appoggi, avendo siti iscritti alla Danger list (Mali e Messico) o candidati alla stessa (Italia), o avendo proposto nomine di nuovi siti ritenute da differirsi (Belgio, Grecia, Italia, Ruanda).
Così la redditizia indifferenza per le sorti del sito di Venezia avrebbe già la schiacciante maggioranza con e l’aiuto della solita Etiopia, molto determinata a sfidare i pareri degli organi tecnici. Si può aggiungere che nella decisione peserà anche la posizione del nostro paese, fra i principali contributori volontari, e avrà anche un ruolo il provvido coniglio estratto dal cilindro in questi giorni a Venezia, e cioè il provvedimento del ticket d’accesso, tassa inefficace, odiosa e contestata dai veneziani.
Pertanto si può prevedere che il World Heritage Committee, a meno di un miracolo o di segrete contrapposizioni geopolitiche o di isolazionismi che forse rimarranno oscuri, ancora una volta non iscriverà Venice and its Lagoon nella Danger List. Quel che possono fare cittadini e associazioni è premere sul World Heritage Centre per richiedere come previsto dalle Operational Guidelines dell’Unesco e dalla Convenzione di Faro una partecipazione diretta alla tutela del sito, e che sia garantita agli Advisory bodies l’accesso anche agli studi e pareri di enti e ricercatori qualificati e indipendenti.
*Consigliere nazionale e già presidente Italia Nostra Venezia