“Gonfio di sonno e di malumore, ho preso servizio il 12 settembre. Mi consolava la certezza che, come tutti gli anni saremmo scivolati senza intoppi fino a novembre con un orario ridotto e provvisorio”. Il primo giorno di scuola raccontato da Domenico Starnone in Ex cattedra e altre storie di scuola in diversi casi è ancora reale, ma non mi piace. Per questo motivo, nonostante l’orario ridotto, piuttosto che lasciarmi trasportare dalla naturale lentezza iniziale delle attività, cerco di andare veloce. Da subito,
della sistemazione della mia classe “prevalente”, una terza, ho preferito occuparmi personalmente. Via la cattedra e i banchi disposti a ferro di cavallo squadrato lungo tre dei quattro lati. Al centro un unico banco ed una sedia. Più dietro, quattro file da quattro di sedie.
I ragazzi saranno accolti così. E di certo rimarranno abbastanza interdetti. Non troveranno la classe come immaginavano. Ma neppure la consueta lezione d’inizio anno. Un apparente sconvolgimento delle abitudini che spero serva. Per raccontarci di quel che abbiamo fatto e detto durante l’estate e per scherzare su quanto sono cresciuti in questi mesi, ci sarà tempo anche più avanti. Poco male se non ci potremo fare i complimenti per le nostre abbronzature. Invece, discuteremo dell’esame, dopo che gli avrò fornito qualche informazione tecnica su come è più che probabile si svolgerà.
M’interessa che abbiano il tempo di prepararsi al primo appuntamento della loro vita con una prova, scolastica. Mi coinvolge l’idea che si avvicinino all’esame in maniera consapevole. Matura. “Simuleremo il tema, esercitandoci quanto più volte riusciremo sulle tipologie testuali che troverete. Quella narrativa, quella argomentativa e quella strutturata in più parti”, dirò. Aggiungendo subito dopo che “il tema deve diventare il nostro punto di forza”. Sicuramente qualcuno commenterà la mia affermazione sostenendo che lui non sa scrivere. Ci prova, ma non riesce proprio. “Non preoccuparti – proverò a rassicurarlo -, abbiamo un anno, ancora per lavorare quanto meno sulla tecnica. E poi ho deciso che ci vedremo anche il sabato mattina, per questo”. A quel punto inizieranno a incrociare gli sguardi, increduli. Forse anche spaventati che li costringa agli straordinari in un giorno di riposo. L’ansia durerà poco. Sarà sufficiente che dica che era solo uno scherzo.
“All’orale dovremo fare ancora meglio che allo scritto. Sapere “le cose” è importante. Le conoscenze sono fondamentali, lo sapete. Ma poi la differenza lo fa la capacità di espressione. Come sarete in grado di esprimervi. Argomentando. Insomma le vostre competenze”. Sono sicuro che quando sosterrò questa tesi i ragazzi mi ascolteranno. Più che interessati, inquieti. E da questo momento saranno in molti a chiedere un po’ di tutto. “Porteremo i programmi dei tre anni?”, mi interrogherà qualcuno, mentre un altro porrà “il dilemma dei dilemmi”: tesina o mappa concettuale? Non mancherà chi sarà curioso di sapere del tempo a disposizione per lo scritto e poi dell’orale. Naturalmente risponderò cercando di spiegare, badando alla chiarezza.
Ma il punto non è lo scritto d’italiano, e neppure l’orale. Mi spiego: lo sono entrambi, naturalmente, è giusto dargli importanza, la giusta importanza. Ma senza dimenticare che l’elaborato d’italiano e la conversazione finale sono parti di un percorso triennale. Sono un esame, ed è su questo che i ragazzi devono concentrarsi. Lavorando sulle materie, naturalmente, ma anche su se stessi come non hanno fatto mai prima, forse. Lo suggerisce la parola “esame”, che viene dal latino examen, letteralmente “ago della bilancia”, più genericamente “prova”, “verifica”. Lo suggerisce ancora meglio il verbo exigo, “misurare”, “pesare”, dal quale deriva. “Attenta osservazione a cui si sottopone un oggetto o una persona e le varie sue parti per conoscerne le qualità e lo stato”, secondo la definizione del vocabolario della Treccani.
Ai ragazzi dirò questo, che l’esame lo dovranno fare loro a se stessi. Guardandosi, osservandosi con attenzione. L’obiettivo è questo. Non temere troppo il giudizio degli insegnanti. Magari le loro domande. Le sottolineature che potranno fargli. Niente e nessuno potrà modificare realmente quel che sono, ancora più di quel che sanno. Devono capire che l’esame è l’occasione per mostrarsi, per dimostrare a se stessi le Persone che sono diventate. “Sono puntiglioso, lo sapete. Nei due anni trascorsi insieme, sono state esigente con Voi. Con qualcuno molto intransigente”, dirò. E subito dopo scherzerò con Mattia sulle linee del tempo, in Storia. E con Lucia sulle biografie degli autori della letteratura italiana. E con Flavia sugli approfondimenti di Geografia. “Sono puntiglioso”, ripeterò. “Ma l’esame non è solo una questione di date da ricordare. E di argomenti da mettere in relazione”, spiegherò. “Prendetevi la scena, in quel tempo che avrete. Siate protagonisti, finalmente”, aggiungerò.
Per la prima lezione del nuovo anno scolastico ho deciso di iniziare a far sentire “grandi”, davvero, i ragazzi. Rendendoli consapevoli, da subito, della prova che affronteranno il prossimo giugno. Non serve aspettare gli ultimi mesi. Non serve trattarli come se la scuola potesse proteggerli dalle insidie della vita per sempre. “Solo comportamenti negativi si apprendono nel corso degli esami”, si arrabbia Passamaglia. E mette nel conto sulle dita l’umiliazione di mostrarsi impauriti, troppo sudati, troppo stupidi, troppo intelligenti. Perciò mi esorta a dire basta”. Starnone in Ex cattedra e altre storie di scuola racconta quanto l’esame di maturità sembrasse inutile e pernicioso ad una sua collega. L’esame di terza media non è la maturità, evidentemente. Ma serve, proprio come la maturità. Serve paradossalmente per le ragioni addotte dalla Passamaglia. Permette un confronto con se stessi che in altre circostanze non si verifica.
“Ragazzi, prepariamoci all’esame, guardandoci dentro”, concluderò sul suono della campanella. La prima dell’anno.