In quell’estate del 1993 tutto sembrava possibile o quasi. La vittoria laburista del 1992, con Yitzhak Rabin premier e Shimon Peres ministro degli Esteri, aveva consolidato una timida spinta negoziale che già si era manifestata al vertice di Madrid del 1991, quando i palestinesi che rappresentavano l’Olp, i rappresentanti israeliani e americani si erano seduti nella stessa sala. C’erano poi stati incontri discreti a Londra nel 1992 e nei primi mesi del 1993 a Zagabria. Ma serviva discrezione. I nemici di quella pace erano molti – in entrambi gli schieramenti, gli arabi oltranzisti, l’ultra destra israeliana – e alla fine il governo norvegese offrì Oslo dove gli incontri si svolsero nella massima segretezza.

Per l’Olp furono condotti da Ahmed Qurei (Abu Ala) che si relazionava direttamente con Yasser Arafat, per Israele dal direttore generale del ministero degli Esteri Uri Savir, che riferiva al suo ministro Shimon Peres. Si conclusero il 20 agosto e il 9 settembre furono siglate da Rabin e Arafat le lettere ufficiali di riconoscimento. Poi il 13 settembre a Washington sul Prato delle Rose della Casa Bianca, la firma solenne con il presidente Bill Clinton a fare da garante. Il 23 settembre la Knesset votò sì all’accordo, ma per un soffio: 61 favorevoli, 50 contrari e 8 astenuti. Non si stabilivano però dei confini definitivi dopo quasi cinquant’anni di occupazione, ma una soluzione progressiva nel tempo, una Road Map (un nome che si rivelerà essere la definizione perfetta di fallimento).

La prima intesa si chiamava “Gaza e Gerico Before” – le due città palestinesi più tranquille durante la prima intifada. E infatti il raìs palestinese si sarebbe insediato prima a Gaza e poi a Ramallah. Un oscuro villaggio di pastori e agricoltori senza Storia che fu scelto solo per la sua vicinanza a Gerusalemme, il cui destino era ed è tuttora il cuore dello scontro israelo-palestinese. Arafat scalpitava nell’esilio tunisino, era pronto a promettere – come i suoi interlocutori israeliani – anche quello che non poteva mantenere. Durante un’intervista nella villetta alla periferia di Tunisi che fungeva da suo QG dopo la fuga da Beirut, Arafat mi mostrò una lista di futuri ministri della nascente Autorità Nazionale Palestinese. Erano tutti i fedelissimi che l’avevano seguito nel suo lungo vagare in passato fra gli Stati arabi, i leader emersi dall’intifada in Cisgiordania erano giusto un paio.

Questa frattura fra i “tunisini” e i palestinesi dei Territori è stata alla base della progressiva sfiducia della popolazione di Gaza e Cisgiordania nell’Anp. Edward Said – il più lucido intellettuale palestinese che insegnava alla Columbia University di New York – mi raccontò anni dopo che la delegazione palestinese prese le sue decisioni su mappe vecchie, che risalivano al mandato britannico, che non tenevano contro dell’esplosione urbana in Cisgiordania degli anni Settanta e Ottanta.

Rabin e Peres però non riuscirono a tenere a freno l’ultra destra messianica. Il primo fu assassinato da un estremista ebreo, armato e spinto all’omicidio da una setta rabbinica; il secondo rimase imprigionato nel suo ruolo di Nobel per la Pace. Negli anni successivi l’espansione degli insediamenti israeliani accelerò di cinque volte rispetto alla normale crescita, ingenerando frustrazione tra i palestinesi e una generale sfiducia sugli accordi e sulle vere intenzioni israeliane. Infatti esisteva una gran parte della popolazione israeliana che era totalmente contro gli accordi di Oslo, poiché ritenevano che questi andassero contro il grande progetto di far risorgere Erez Israel, la Grande Israele dal Mar Morto al Mediterraneo.

Allora come oggi, al voto dopo l’assassinio di Rabin, vinse Benjamin Netanyahu, il più feroce, aggressivo e minaccioso avversario degli Accordi di Oslo. Agghiacciante il manifesto che fece stampare con Yitzhak Rabin con la kefiah come quella di Arafat e le mani sporche di sangue, una campagna di odio che poteva sfociare in un solo modo e sconvolgente: il premier israeliano fu assassinato non da un nemico o un terrorista arabo, ma da un altro ebreo, studente di una scuola talmudica dove si giustificava l’uccisione del nemico, ebreo o arabo che fosse. Per molti Yigal Amir è stato ed è un eroe, e la nuova destra al potere adesso non esclude la grazia. In quei mesi prese corpo e divenne palese il disimpegno di Hamas e della Jihad islamica da qualunque accordo stretto dall’Anp di Arafat. La seconda intidafa, nel Duemila, cancellò il poco che era stato fatto.

“A questo anniversario trenta anni dopo la destra dirà che Israele è caduto vittima della frode palestinese, e ascolteremo anche varie teorie cospirative sull’assassinio di Rabin progettate per esonerare il sionismo religioso e i suoi rabbini, e Benjamin Netanyahu, dalla colpevolezza di incitamento all’omicidio”, ha scritto Aluf Benn su Haaretz. “La sinistra dirà che Israele ha ingannato i palestinesi con false promesse sulla fine dell’occupazione, mentre continuava a inondare la Cisgiordania e Gerusalemme Est con sempre più coloni. Per la destra Rabin era uno sciocco, per la sinistra un truffatore”.

Ma c’è una cosa su cui tutti adesso sono d’accordo: la parola “pace”, che durante gli anni di Oslo si sentiva echeggiare sempre come un mantra, è scomparsa quasi del tutto, sicuramente per quanto riguarda i palestinesi. Non vengono più menzionati come una parte con cui negoziare o con cui raggiungere un accordo di pace. Semplicemente il nuovo governo Netanyahu ha deciso che non esistono più.

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