Che il rapimento e l’uccisione dell’imprenditrice calabrese Maria Chindamo fosse un “affare di famiglia”, unito alla gestione autonoma che la donna aveva delle sue terre e che dava fastidio ai mafiosi della zona, era cosa risaputa, è vero. Già nel 2016, all’indomani dalla sua scomparsa, l’allora procuratore di Vibo Valentia, Mario Spagnuolo, disse: “Ci siamo trovati ad affrontare un caso difficile, in cui qualcuno si è sostituito a Dio, decidendo chi deve vivere e chi deve morire”. Una affermazione forte, unita alla consapevolezza che Maria era scomparsa nei giorni in cui ricorreva il primo anniversario della morte del marito, Ferdinando Punturiero, il quale si era suicidato perché non accettava la fine della relazione con la moglie.

Ebbene, sono passati sette anni da quelle parole e dalle varie ipotesi che si sono alternate sul caso Chindamo. Anni in cui non si è rimasti con le mani in mano ma in cui – complice un contesto reticente e omertoso – non è stato possibile accertare le responsabilità di nessuno. Solo nel luglio del 2019 è stato arrestato un uomo, Salvatore Ascone, “colpevole” per la procura di aver manomesso il sistema di videosorveglianza della sua abitazione il giorno della scomparsa di Maria. Quelle telecamere, piazzate proprio di fronte ai terreni della donna, avrebbero potuto riprendere in volto l’aggressore o gli aggressori di Maria e chi l’ha portata via per sempre. Ma il tribunale del Riesame, nonostante una dettagliatissima indagine del reparto crimini violenti del Ros – che ha spedito fino al produttore cinese i quesiti per quell’impianto, accertando quindi che le telecamere erano state appositamente manomesse e non c’era stato un malfunzionamento – ha deciso di scarcerare Ascone in pochissimo tempo. La sentenza ha ottenuto il sigillo della Cassazione.

Nel frattempo, il caso Chindamo non è stato chiuso. Nessuno ha mai creduto di poter archiviare una storia del genere. Dunque, è passato nelle mani della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. A quell’indagine sulle telecamere e su altri accertamenti di tipo tecnico, si sono unite le dichiarazioni dei pentiti che hanno fatto luce sul coinvolgimento dello stesso Ascone, sul ruolo che quest’ultimo avrebbe avuto. L’ultima testimonianza è arrivata lo scorso gennaio da un pentito che avrebbe saputo quello che è successo a Maria dalla bocca stessa di Ascone: “me la sono dovuta caricare addosso per quattro soldi”. Dichiarazioni che avevano lasciato di stucco anche l’interlocutore di Ascone, il quale si era sfogato con il figlio riguardo l’accaduto, mostrando una certa impressione rispetto ai fatti e a quello che erano stati capaci di fare a una donna.

La procura della Repubblica di Catanzaro ha quindi arrestato ancora una volta Ascone, in una operazione più vasta contro le cosche del Vibonese. Ma il procuratore Nicola Gratteri, di cui si è saputo in queste ore che andrà alla guida della procura di Napoli, non ha “rivenduto” la stessa notizia ai giornali prima di lasciare il suo posto, come ipotizzato dal giornale Il Dubbio, che ripercorre solo in parte la storia di Maria Chindamo. Nel fascicolo della Dda di oltre mille pagine ci sono i rapporti della famiglia Ascone con il clan Mancuso a partire dalle dichiarazioni del primo pentito di ‘ndrangheta, Giuseppe Scriva, fino all’ultimo dei collaboratori di giustizia che ha parlato di lui e del caso Chindamo.

Non sono soltanto le parole di Emanuele Mancuso a incastrare Ascone, come sottolineato dal Dubbio. È la totale sintonia fra le dichiarazioni di vari pentiti che non avrebbero potuto sapere se non direttamente i fatti narrati che ha permesso alla Dda di costruire un impianto di accusa solido e, dunque, “rivendere” la notizia. In questi anni i tre figli di Maria, che hanno perso un padre suicida e dopo un anno la madre, apprendendo che “è stata data in pasto ai maiali e triturata con un trattore”, il fratello della donna, Vincenzo, la sua mamma, Pina De Francia, scomparsa di recente, hanno creduto nella giustizia e nella persona del procuratore Gratteri. Hanno fatto avanti e indietro da Catanzaro per comunicare ogni dettaglio utile, aspettando di dare giustizia a Maria.

L’inchiesta di Gratteri individua il doppio filo a cui è legata questa storia: la vendetta familiare per il suicidio di Ferdinando e l’interesse per le terre della donna, che prima era solo una ipotesi investigativa, oggi è un fatto accertato. Il movente è stato indicato. Le modalità di omicidio e occultamento del cadavere, pure. Fra i mandanti una persona è deceduta ma è intuibile di chi si tratti. L’altra persona coinvolta a piede libero è un ragazzo all’epoca minorenne di cui pure in qualche modo s’intuisce il nome. Che cosa ha “rivenduto” Gratteri? La verità a questa famiglia straziata dal dolore? O la possibilità che una cosa del genere non accada mai più? Oppure siccome Ascone è già stato scarcerato bisogna tenere le bocche chiuse e andare avanti, per non “rivendere” una notizia già nota?

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