di Simone Lauria*

Da quanto tempo non si sentiva parlare di inflazione, di potere d’acquisto dei salari e di aumenti del tasso di interesse? L’ultimo biennio, 2021-2022, è stato contraddistinto da una diminuzione drastica del potere d’acquisto dei salari; per l’Italia, poi, la situazione è particolarmente critica in quanto si posiziona, tra i paesi dell’OCSE, all’ultimo posto in termini di dinamica salariale: negli ultimi trent’anni circa, il potere d’acquisto dei salari è diminuito del 2,9%; un triste primato che si aggiunge alle altre questioni salariali, dal lavoro povero, alle crescenti disuguaglianze – di genere e non solo – ai mancati rinnovi contrattuali.

La maggior parte degli esperti e degli osservatori concordano nel ritenere che in Europa l’inflazione non dipenda da un eccesso di domanda, al contrario di quanto accaduto invece negli Stati Uniti; l’inflazione riguarderebbe l’offerta internazionale, in buona misura dovuta dagli aumenti di prezzo dei beni energetici importati e dal perdurare della guerra in Ucraina.

Del resto, è altresì condivisa dalla maggior parte degli studiosi la tesi secondo cui l’inflazione non dipende in alcun modo dai salari, tenendo conto che le retribuzioni reali in Italia si sono ridotte; pertanto, ogni politica di contenimento dei salari – con buona pace dei convinti sostenitori della “spirale” salari-prezzi – sarebbe non solo inopportuna, dato il potere d’acquisto dei salari già eroso, ma finanche inefficace. E se l’inflazione dipendesse, in buona sostanza, dai profitti? In sintesi: per alcuni, in presenza di un aumento dei costi di produzione le imprese, al fine di mantenere inalterato il margine di profitto, aumentano i prezzi; per altri, l’aumento dei prezzi sarebbe la risposta delle imprese in vista di futuri aumenti dei costi, compreso quello del lavoro.

La questione è certamente complessa e articolata; qui è opportuno soffermarsi sulle possibili soluzioni per frenare quel trend continuo di erosione del potere d’acquisto dei salari che contraddistingue il panorama attuale, tenendo conto che ogni proposta investirà altre questioni, tra cui quelle relative alla rappresentanza, alla contrattazione e al ruolo dei policy makers.

Tra vicende contrastanti, fino ai primi anni degli anni ’80 è rimasto in vigore il meccanismo della cosiddetta “scala mobile”: un adeguamento automatico dei salari alla variazione dell’indice Ipc, l’indice di prezzi al consumo; questo meccanismo sarà poi superato da un modello concertativo nel quale le politiche economiche e sociali vengono stabilite medianti accordi o intese tra i soggetti di rappresentanza degli interessi e le autorità pubbliche; è in questo quadro che si inserisce l’accordo del 31 luglio del 1992, secondo cui la politica dei redditi dovrà agire tenendo conto dell’inflazione programmata.

Esclusi, dunque, i meccanismi di indicizzazione automatica, la stagione concertativa segna una battuta d’arresto nel 2009: nell’accordo del 22 gennaio 2009 – con la CGIL che non firma – scompare l’inflazione programmata e viene introdotto l’indice Ipca (indice armonizzato dei prezzi al consumo) che verrà definito dall’Istat; non ci saranno più apposite sessioni tra le parti sociali, scomparendo di fatto ogni modello concertativo; gli scarti tra le ipotesi previsionali e il dato effettivo sull’inflazione potranno essere recuperati ex post, non automaticamente ma solo se significativi.

Un punto di svolta è rappresentato dalla sottoscrizione del noto Patto per la Fabbrica, sottoscritto da CGIL, CISL e UIL e Confindustria: per quanto riguarda i salari, sarà la contrattazione collettiva a definire i meccanismi di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione; pacta sunt servanda, si dovrebbe dire, soprattutto se la contrattazione collettiva costituisce lo strumento mediante il quale adeguare i salari all’inflazione; eppure, com’è noto, esistono diversi contratti non rinnovati e contratti che si rinnovano con tempi eccessivamente lunghi, a detrimento del potere d’acquisto delle retribuzioni.

Laddove le relazioni sindacali lo hanno consentito, la contrattazione collettiva ha definito modelli certi ed esigibili di adeguamento dei salari all’inflazione anche in corso di vigenza contrattuale, in modo da riallineare i salari in tempi ragionevoli; ne sono un esempio il Ccnl dei metalmeccanici e quello del legno, recentemente rinnovati; è opinione condivisa che la contrattazione collettiva, da sola, potrebbe costituire una soluzione ma, a fronte di contratti collettivi che non si rinnovano con la giusta tempistica, questa soluzione risulta fortemente depotenziata. Il ragionamento, poi, deve comprendere anche altre azioni: sul tema della rappresentanza sia sindacale sia datoriale, sul tema del fenomeno del dumping contrattuale.

Non posso che concordare con le autorevoli opinioni secondo le quali è necessario proporre, certamente unitariamente, a imprese e governo la fissazione di obiettivi condivisi su inflazione, crescita e occupazione, pur considerando le difficoltà sia dei rapporti unitari tra organizzazioni sindacali sia dei rapporti tra le parti sociali e il governo, soprattutto in questo momento storico. Ma la soluzione non può che essere quella di una politica di disinflazione concordata tra i diversi attori: sindacati, rappresentanze delle imprese e governo, con particolare riguardo ai ceti economicamente più fragili e favorendo le politiche di accesso al credito per quelle imprese che intendono investire nell’innovazione tecnologica per affrontare le sfide della transizione ambientale e di quella digitale.

Non pochi però sono i dubbi sulla volontà politica effettiva dell’attuale governo di inaugurare una nuova fase concertativa, più interessato, a quanto pare, a mantenere il consenso dei propri elettori anziché individuare soluzioni per contrastare il fenomeno sempre più emergente delle disuguaglianze economiche e sociali.

*Ufficio Studi Camera del Lavoro CGIL di Milano

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