Cinema

L’invenzione della neve, piccolo miracolo intimista in stile Dardenne con la magnetica Elena Gigliotti

di Davide Turrini

Elena Gigliotti. Segnatevi questo nome. È la protagonista assoluta de L’invenzione della neve di Vittorio Moroni, dal 14 settembre in una manciata di sale italiane dopo la fugace apparizione veneziana. Gigliotti possiede un divino magnetismo sulla scena, qualcosa di profondamente e naturalmente stanislavskijano. Fin da ora facciamo mea culpa nel non averla incrociata sui palchi teatrali più prestigiosi del paese. Capita. Rimedieremo molto presto. Intanto ne L’invenzione della neve si mangia il film, lo schermo, lo spettatore. Del resto Moroni nei titoli di coda ringrazia nientemeno che John Cassavetes e Gena Rowlands. E in qualche modo l’attrice calabrese, qui in un delizioso grammelot siculo pugliese, ricorda parecchio l’attrice statunitense, in quello straordinario eclettismo che zoppica causticamente nel borderline senza mai perdere la tenerezza.

Invadente, colorata e prorompente Carmen (Gigliotti) torna nella casa vuota dove ha convissuto con l’ex marito per il compleanno della figlia. I due pare abbiano avuto una relazione travagliata, violenta e perfino zeppa di droga. Mentre ora l’affidamento della figlia è un rebus parzialmente vinto dal’ex, Massimo (Alessandro Averone). Questo porta Carmen a compiere sotterfugi retorici, usare sotterraneamente la sua presenza sexy, nonché mentire un po’ con tutti. Ma Carmen è solo una fragile, folle, regina di un regno animal-familiare estinto e dissolto in un mondo di consuetudini seriose, formali, distratte. L’invenzione della neve è uno studio sul personaggio. Uno slittamento della protagonista in poco più di una mezza dozzina di quadri, con un/a coprotagonista differente con cui dialogare e spingersi spesso al limite. Nella prima lunga, sensuale, iperfisica sequenza Carmen è ai ferri corti con Massimo; nella seconda con la timida amante dell’ex, commessa in un negozio di animali; nella terza è lei intimorita di fronte ad un’assistente sociale e via via fino alla sorella amica non amica, e di nuovo con l’ex e la suocera a scalpitare. In mezzo un assolo in graduale nudità, dirompente stato psicotropo, improvvisamente svuotata e sbiancata come un cencio.

Se a questa performance psicofisica della Gigliotti aggiungiamo che la regia di Moroni è stilisticamente dardenniana (all’impercettibile steadycam c’è Julien Dehersemaeker), con una prossimità della macchina da presa agli attori che si ricostruisce di attimo in attimo, e una particolare predilezione nell’insistenza dei profili tagliati sul viso picassiano della protagonista, il piccolo miracolo intimista de L’invenzione della neve si compie in quasi due ore di film che scappano tragiche e virtuose. Su tutto aleggia un’animalità favolistica che si apre e chiude nelle animazioni di Gianluigi Toccafondo come nel recuperare qua e là dettagli bestiali (una maschera, un tatuaggio, un dipinto sul muro) che bucano il consueto.

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