Il numero dei migranti a Lampedusa ha superato, in questi giorni come nel 2011, quello dei residenti. Oltre seimila, autonomamente giunti in banchina e nei più vari approdi dell’isola con uno sciame ininterrotto dei pericolosi gusci in ferro prodotti in serie dall’industria dei trafficanti. Non basta più il grande sforzo delle istituzioni locali, a terra e in mare, per far fronte a una situazione che Giovanni Di Leo, neo-procuratore della Repubblica di Agrigento, ha definito “prossima al collasso” e il parroco di Lampedusa don Carmelo Rizzo “un’apocalisse”.
In altri tempi, i partiti oggi al governo avrebbero gridato, dai banchi dell’opposizione, alla cedevolezza dello Stato e all’inerzia dei suoi rappresentanti.
Da settimane invece, mentre il numero degli sbarchi superava del doppio quello dello scorso anno e di tre volte quello dell’anno precedente, la linea governativa si era attestata sull’esaltazione di una improbabile e immorale attività diplomatica (finanziamenti alla Libia e alla Tunisia per contenere le partenze), nonché sulla repressione degli scafisti “lungo tutto il globo terraqueo”.
L’una e l’altra iniziativa non sono soltanto rimaste prive di effetti, ma hanno piuttosto sortito quelli opposti.
Di fronte all’impennata di questi giorni, dopo troppe ore di silenzio, arrivano ora le prime preoccupanti dichiarazioni del governo.
La presidente Meloni, fin qui convinta – con il ministro dell’Interno Piantedosi – che all’emergenza dovesse porsi rimedio fermando all’origine le partenze, ha oggi asserito invece che “vanno fermati gli arrivi”. La frase rimanda in modo allarmante alla soluzione, dalla stessa premier prospettata in campagna elettorale, di un blocco navale: misura di guerra per fermare in mare i migranti non trattenuti nei luoghi di partenza.
Anche il ministro Salvini ha prospettato soluzioni estreme: “È un atto di guerra lo sbarco di 120 mezzi con a bordo migranti”, ravvisandovi (senza indicare il responsabile) la presenza di “una regia, un sistema criminale organizzato”.
I due leader confermano così la comune volontà di intendere una emergenza umanitaria come un pericolo per l’ordine pubblico. Le loro dichiarazioni – non di politici in libertà ma in veste di premier e vice-premier – mettono in gravi difficoltà gli uomini delle istituzioni chiamati a prodigarsi per salvare vite umane ed assicurare assistenza a quelle scampate ai rischi. La guerra alle Ong e le accuse di contiguità con i trafficanti potrebbe così di nuovo lambire (o addirittura investire, come è già successo) anche le organizzazioni del soccorso istituzionale.
In attesa che gli accordi diplomatici diano i risultati sperati (attesa purtroppo lunga e non facile), la risposta di un paese civile non può che andare in tutt’altra direzione: nella creazione di corridoi umanitari per eliminare o mettere comunque ai margini le organizzazioni criminali; nella istituzione di un dispositivo europeo dei soccorsi, formato da unità di Stato e civili, per trarre dal mare le persone in pericolo; nell’apprestamento di una forte logistica nei porti del Sud che preveda anche il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità ospitanti (più efficienti servizi sanitari, adeguate vie di comunicazione, strutture per l’infanzia, apprestamenti scolastici e di indirizzo al lavoro).
Una logica premiale nei confronti delle popolazioni raggiunte dal fenomeno migratorio, che di una emergenza sappia fare una opportunità.