In questi giorni, su vari media e discussioni social è frequente il commento a femminicidi e stupri che allontana l’attenzione dal carnefice, l’uomo, per concentrarla su una presunta “bestia”. Al di là del fatto che tale definizione è pregiudizialmente specista, sarebbe utile dirvi quanto, come e perché quel “bestia” mi faccia incazzare.
Siamo abituate a leggere narrazioni scorrette su femminicidi e stupri, concentrate sul martirio del carnefice prima che egli uccida una donna o sulle tentazioni psico-porno che alimenterebbero la rapacità dello stupratore. Abituate, ma mai rassegnate, a leggere di “raptus”, “follia omicida”, “troppo amore”, “delitto passionale”, “delitto per gelosia”, “era una persona gentile e salutava tutti” (commenti del vicino sul carnefice). E in caso di stupri abbiamo letto più e più volte di una lei “ubriaca”, “sessualmente promiscua”, “inserita in contesti di degrado sociale”, “vestiva abiti succinti”, “troppo socievole”, “dava segnali contraddittori”, eccetera.
Tutto ciò vuol dire una sola cosa, ovvero che si cerca in ogni modo possibile di umanizzare l’assassino e lo stupratore e di colpevolizzare le vittime. Cancellate se uccise, salvo quando qualcuno testimonia che ella frequentava regolarmente la chiesa e pregava sempre o era una madre santa e martire che sopportava le botte per il bene dei figli. Criminalizzate se stuprate, salvo quando si ricorda che era vergine, pura, senza tatuaggi, abitudini sconce, tentazioni moleste. In ogni narrazione le donne sono sante o puttane e il carnefice vince una medaglia al valore per ogni femminicidio o stupro.
Le parole sono importanti, ce lo ricorda Carlotta Vagnoli nel suo Poverine. Come si racconta un femminicidio. Un libro di qualche tempo fa che vale la pena citare per chi volesse capire dove sta l’errore, in special modo se sei un giornalista e ti occupi di cronaca nera, quando si parla di femminicidio e stupri. Il libro riassume riflessioni che in tante abbiamo divulgato, negli anni di instancabile attivismo, cercando di fare l’unica cosa utile a prevenire un’altra morte, un altro stupro: cambiare la cultura.
Dunque torniamo al carnefice che viene dipinto sempre come un demente rapito dagli alieni la cui perdurante estasi cosmica lo rende inadeguato a comprendere segnali di comunicazione chiari (No vuol dire no!) sul pianeta terra. La linea difensiva del carnefice inizia dalla comunicazione mediatica: egli viene descritto come “malato” (No, è un figlio sano del patriarcato!) in ultimo come “bestia” (No, è un uomo!). Tali definizioni appaiono rassicuranti, perché ci dice che, in fondo, a noi cose del genere se ci comportiamo bene non possono avvenire mai e quando avvengono dipende dal fato, una casualità, un’eccezione, un’emergenza.
Sulla linea dell’emergenzialità si muovono i provvedimenti del governo, cancellando il fatto che si tratta di un problema endemico. Il carnefice non è il mostro nascosto là fuori ma ha le chiavi di casa. Tali crimini sono per lo più commessi da mariti, ex mariti, fidanzati, amici, padri, fratelli, amici, conoscenti. Sono tra noi, vicini a noi, tutti i giorni a fare battute sessiste alle quali rispondiamo sorridendo obliquamente quando vorremmo schiaffare un mattarello in faccia a ciascuno. Sono familiari e persone vicine che uccidono e stuprano le donne. Non le “bestie” che vivono in un magico bosco la cui breccia magica si è aperta per puro caso e all’improvviso, chiusa la quale tutto torna al proprio posto.
Dice Vagnoli – mi scuso se non cito a memoria perché l’ho letto tempo fa – che ricorre una concezione favolistica della narrazione su femminicidio e stupri. La “bestia” richiama alla favola in cui viene rapita la “bella” ed è lei che in una sorta di sindrome di Stoccolma decide di ingentilire il rapporto causando il miracolo: la “bestia” diventa il “principe”.
Quante volte ci è stato detto che il cattivo comportamento di uomini violenti dipendeva da noi? Troppo aggressive, troppo assertive, troppo indipendenti, poco assistenzialiste, poco comprensive e disponibili, poco propense a produrci in fantastiche fellatio prevenendo il bisogno sessuale dell’uomo. Poco divertenti, se non accettiamo le molestie, poco sensibili, se ci concentriamo su noi stesse e non sul martirio costante del maschio dal cuore infranto. Troppo o troppo poco. Dipende dalla donna, avrebbe detto la mia bisnonna. Se vuoi tenerti un uomo tutto dipende da te. Se non vuoi che lui sia collerico addomesticalo, come se fosse, per l’appunto, una “bestia”.
Parrebbe che tale discorso voglia sminuire gli uomini ma in realtà è giusto perché li tengo in gran considerazione che mi rifiuto di usare manipolazione, sedute suppletive di rieducazione all’arancia meccanica, misteriosi artifizi subliminali, per dire ad un uomo che se è uno stronzo violento deve starmi lontano. Non sono una crocerossina, non devo guarirlo, non è mio compito riportarlo sul pianeta terra e non è mio compito consolarlo. Io non sono venuta al mondo per salvare un uomo. Sono viva, merito di restare tale. Lo stesso non pensava il mio ex, il quale si è arrampicato per due piani per sfondarmi una finestra e tentare di uccidermi strangolandomi. Se fossi morta lo avrebbero definito scimmia arrampicatrice, non uomo, ma comunque “bestia”.
La questione va oltre: non solo così si avvalorano stereotipi di genere che renderanno vittime tante altre donne, educate da sempre a salvare le “bestie”, ma si esclude la responsabilità sociale e culturale di ciascuno. In tempi remoti le donne venivano rinchiuse in casa mentre l’uomo cacciatore scongiurava il pericolo di aggressioni uccidendo la “bestia”. Nessuno però ha il coraggio di leggere il resto della favola: il cacciatore torna a casa, richiede alla donna un pagamento in natura per la protezione offerta, esige che sia apprezzato il suo sacrificio estremo, che la moglie curi le sue ferite e nel frattempo si lasci picchiare per fargli sfogare un po’ di rabbia repressa che ha coltivato nello strenuo tentativo di sopprimere l’indomabile “mostro”. La favola non finisce con “e tutti vissero felici e contenti”. Semmai continua con un “lui uccide la bestia e così torna a picchiare la moglie per riaffermare il dominio, il proprio potere su ciò che ritiene di sua proprietà”.
E’ il 2023: la donna non ha bisogno di essere protetta dalla “bestia”. Lei deve difendersi da uomini che uccidono, mortificano, umiliano, stuprano, massacrano donne per riaffermare potere e dominio su colei che mai hanno considerato quale “persona”, “essere umano”. Perciò il carnefice viene umanizzato nelle descrizioni morbose dei femminicidi e lo stupratore viene definito “bestia” se la donna stuprata non può essere licenziosamente definita “puttana”.
Sono facce della stessa medaglia. Fatemi il favore: smettete di definirli “bestie”. Sono uomini. Uomini violenti con le donne. E già che ci siamo spiegatemi: perché alle donne in Italia è vietata la legittima difesa?