“La vita stessa è diventata la nostra guerra, (..) i giovani vengono uccisi, (…) non c’è più spazio per la felicità in questa terra devastata, (..) non c’è bisogno di una Guida per uccidere la nostra gioventù, (..) siamo stanchi di voi”. È passato un anno dalla morte della giovane curdo-iraniana Mahsa Amini, mentre si trovata sotto la custodia della Gasht-e Ershad, la polizia morale della Repubblica islamica dell’Iran. Sono passati diversi mesi dai picchi di intensità raggiunti dai moti di rivolta anti-governativa che questa tragedia aveva scaturito, repressi nel sangue dalle forze di sicurezza iraniane con una violenza più che proporzionale al loro impeto. A leggere questo virgolettato sembrerebbe di essere nuovamente al cospetto di una delle tante canzoni – la più famosa delle quali è Baroye – che in quei mesi avevano accompagnato e vivificato le proteste stesse, partecipate da migliaia di giovani delle città ed esponenti delle nuove generazioni, assetate di libertà personali, laicità, lavoro, abbandono di posture perennemente antagoniste, opportunità di apertura al mondo. Non è così, e l’utilizzo del passato per riferirsi a quei moti non deve indurre a credere che essi si siano esauriti.

Anzi, è proprio l’insolita identità degli autori di questi versi di una nuova canzone a gettare un’inedita, diversa, più intensa luce sul malcontento diffuso in Iran: si tratta di Danial Moghaddam e Gholam Koveitipour, la canzone che hanno pubblicato durante le recenti celebrazioni del mese di Muharram si intitola Raeis (capo) ed è in particolare persone come loro che il regime in Iran non può più permettersi di ignorare, screditandole – come nel caso dei giovani scesi in piazza soprattutto tra settembre 2022 e gennaio 2023 – mediante l’accusa di essere istigati dagli Stati Uniti, di essere funzionali ai tentativi di sabotaggio del sistema da parte di Washington.

Moghaddam e Koveitipour sono infatti dei cantori sciiti, degli “elogisti” di professione, storicamente utilizzati dal regime iraniano durante le celebrazioni religiose, proprio durante Muharram ma non solo. In un certo senso, dei “menestrelli” della retorica politico religiosa che ammanta la Repubblica islamica dalla sua nascita nel 1979, e nel caso di Koveitipour – ma anche di molti altri suoi colleghi, come Mahmoud Karimi o Mansour Arzi – anche un veterano della guerra tra Iran ed Iraq del 1980-88, evento per molti versi fondante degli oltre 40 anni di Repubblica islamica.

Che parole così dure verso il regime vengano da queste figure è significativo perché il pubblico a cui si rivolgono e che in un certo senso rappresentano in prima persona è storicamente lo zoccolo duro del sostegno al sistema, quel segmento della popolazione – le cui dimensioni è sempre più complicato misurare – che sostiene la “rivoluzione islamica” con motivazioni e sensibilità anche di carattere identitario.

Moghaddam e Koveitipour, appunto, non sono i soli: lo scorso luglio un altro elogista della città di Dezful durante una cerimonia salmodiata aveva accusato le autorità di concentrarsi sul velo ignorando le difficoltà economiche degli iraniani, negli stessi giorni in cui altri suoi colleghi della associazione religiosa nota col nome di Fahadan, nella città di Yazd, intonavano frasi come “fermati, oppressore, perché Dio si sta arrabbiando” o “il palazzo costruito col sangue prima o poi crollerà”. Altri durante i loro elogi hanno addirittura nominato dei manifestanti uccisi, come il 19enne Hamidreza Rouhi.

La durezza di alcune reazioni dell’establishment fa capire quanto l’argomento sia delicato, poco maneggiabile dallo stesso: Ehsan Abedi, del ministero della Cultura, ha definito alcuni elogisti “amici di Satana”, e l’ayatollah Hashem Hosseini Bushehri, membro dell’Assemblea degli Esperti ed importante figura del seminario di Qom, li ha recentemente rimproverati per “aver lusingato il nemico”, ricorrendo alla tipica allusione che le proteste antigovernative sarebbero organizzate col proposito di attirare l’attenzione dei media occidentali.

Ad un anno dalla morte di Amini, qualcosa sta cambiando, in direzioni e modalità difficili da contenere nel lungo periodo. Non si tratta più della tradizionale frattura tra riformisti – che, pur ridimensionati, hanno sostenuto le ragioni della protesta, in primis tramite il loro storico leader agli arresti domiciliari, Hossein Mousavi, ex consigliere di Khomeini, oggi convinto della necessità di un cambiamento radicale della natura della Repubblica islamica – e conservatori, o meglio principalisti.

È soprattutto all’interno di questi ultimi che oggi – dopo centinaia di morti, decine di condannati a morte e migliaia di arresti – si sta aprendo una frattura di non facile ricomposizione: se il fronte più oltranzista continua a confermare un atteggiamento intransigente, tanti altri conservatori di diverso grado hanno iniziato a manifestare aperte perplessità rispetto alla gestione del malcontento e su alcune leggi dello Stato. È stato ad esempio Ezzatollah Zarghami, ministro del Turismo del governo conservatore in carica guidato da Ebrahim Raisi, ad affermare recentemente che le donne dovrebbero essere autorizzate a non portare il velo in pubblico se non lo desiderano e a lui hanno fatto eco anche alcuni militari dei Guardiani della Rivoluzione, caldeggiando l’avvio di alcune riforme.

Pur con una minore intensità, fiaccata dalla brutale risposta delle autorità, le proteste vanno avanti in diverse aree del Paese, in particolare quelle di confine, come Balucestan e Kurdistan. E non si ferma nemmeno la repressione: secondo quanto riportato da Hengaw, organizzazione curda per i diritti umani, lo scorso 13 settembre Hamed Bagheri è stato ucciso con quattro colpi di arma da fuoco dalle forze di sicurezza a Karaj, mentre incitava slogan contro il governo e invitava le persone a partecipare alle imminenti proteste che, proprio oggi, marcano l’anniversario della morte di Mahsa Amini, la loro prima martire.

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