Un disco dedicato agli invisibili ma anche alle persone che lo hanno amato di più, genitori in primis. Il Tre, (nome d’arte di Guido Senia), romano, classe ’97, si distingue dai colleghi della scena hip hop italiana sia per i temi trattati che per educazione e gentilezza. L’elogio della normalità in tempi in cui essere trasgressivi rappresenta un vanto e uno status. Con quattro dischi di Platino e due Oro alle spalle, Il Tre torna con un disco – “Invisibili” – che comprende tutto il vissuto e le esperienze di questi ultimi due anni e mezzo, periodo in cui ha scritto, viaggiato, esplorato i suoi pensieri e sentimenti.
Chi sono per te gli invisibili?
Le persone che non riescono a far valere i loro pensieri, ostacolati dagli altri, e ancora più spesso da loro stessi. Gli invisibili siamo tutti noi. È ora di essere visti.
In “Amen” dici: “Non è così facile fare l’artista”. Perché?
Parlo dell’abituarsi all’idea che questo mestiere cambierà per sempre la tua vita e avere anche la consapevolezza che ci sono tante persone che ti ascoltano e sentono la tua musica, vivi sotto i riflettori costantemente. Questa è una cosa bella, ma al tempo stesso pericolosa perché ti fa sentire sempre esposto, sempre con l’ansia di dimostrare costantemente qualcosa. Ma questo è il lavoro che ho scelto con tutti i pro e i contro.
Quali sono i contro?
Quando ho i blackout e i momenti no, quelli meno lucidi, faccio affidamento alle persone che mi stanno vicino. Capita anche di vivere dei momenti professionali difficili, quando ci si rende conto che non si può accontentare il pubblico al 100%. Ci sarà sempre qualcuno che rimarrà scontento. Gli altri mi vedono come un supereroe solo perché sono un cantante, in realtà sono una persona normale come tutti gli altri.
Nel disco canti “per avere paura devi avere coraggio”. Una contraddizione voluta?
“Il coraggio della paura” è uno dei pochi brani in cui non sono protagonista, ma è una storia che ho vissuto da spettatore. Una persona vicino a me mi ha ispirato questa canzone. Ci sono sentimenti forti governati dalla paura che rende vulnerabili. Così per andare avanti bisogna essere coraggiosi, sentirsi al centro della propria storia e consapevoli di quello che si sta vivendo.
In “Techno” parli della deriva di TikTok. Cosa ti colpisce di questo fenomeno?
A me sembra che la vita delle persone sia diventata fare delle stories per far vedere che si fa qualcosa. Vedo bambini di dieci-dodici anni che fanno TikTok. Non c’è nulla di male, intendiamoci, ma l’impostazione di base è cambiata. Sono cambiati i tempi. Quando avevo dodici anni di certo non mi mettevo davanti a una telecamera del cellulare a far balletti. Se tutto il giorno si fanno quelle cose lì non solo stai sbagliando ma perdi il contatto con la realtà.
Che rapporto hai coi social?
Io a 26 anni non mi metto davanti alla telecamera far balletti, faccio un uso del cellulare moderato. Mi piace l’aspetto divertente di Instagram, sui social cerco di mantenere la giusta serietà. Ho come l’impressione che la generazione di oggi sia annebbiata da quello che rappresentano i numeri sui social, quindi più alti sono i numeri, più si pensa di aver successo.
Ti senti un alieno rispetto ai tuoi coetanei?
Non voglio etichette, diciamo che non ho gli stessi interessi di chi vive all’opposto della normalità.
Cos’è per te la normalità?
Per me la normalità è avere una bella famiglia, proprio come ce l’ho io. Mi rendo conto di essere molto fortunato e di avere dei genitori stupendi su cui fare affidamento. Per questo ho voluto omaggiare mio padre inserendo un suo vecchio vocale dentro a ‘Lettera a mio padre’. Più che una canzone è un flusso di coscienza.
La spirale di violenza con protagonisti giovanissimi, secondo te da dove deriva?
Nell’80% dei casi proprio dalla mancanza della famiglia. In alcuni ambiti manca la cultura, l’insegnamento e le basi che consentano ad un ragazzo come approcciarsi alla vita. Nel mio caso la mia famiglia mi ha instradato, ho una personalità forte che mi ha consentito di decidere da che parte stare nel momento in cui gli amici invece sceglievano di intraprendere un’altra strada. Vale dal fumo all’andare in discoteca. A me non andava, non mi divertivo in discoteca e non ci sono andato più.
Ogni anno il tuo nome spunta fuori dal toto-Sanremo. Quest’anno è la volta buona?
Non saprei (sorride, ndr), ma ci sono tanti pezzi pronti.