di Pietro Francesco Maria De Sarlo

Mario Draghi, classe 1947, ha appena ricevuto l’incarico da Ursula Von Der Leyen di preparare un position paper sulla competitività europea. Ora, poiché non si tratta di un giovane rampante di 40 anni ma di un senescente di 76 che la propria visione del mondo e della vita l’ha già abbondantemente espressa e che tanta parte ha avuto nella vita economica europea e italiana, prima di aggiungermi al peana politically correct mi chiedo: quale visione può avere Draghi della competitività in Europa e del suo futuro?

Quindi, o ha cambiato idea o le tracce di quello che sarà il suo progetto si trovano nella sua storia passata e allora: che Dio ci aiuti!

Progetto evidente sin dalla lettera del 5 agosto 2011 inviata al governo italiano nella sua veste di Governatore della Bce. Al primo punto le liberalizzazioni: “E’ necessaria … la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”.

Ora che le privatizzazioni su larga scala, fatte già una decina di anni prima dall’allora direttore generale del tesoro, sempre Mario Draghi, abbiano reso più competitivo il sistema Italia e reso migliori servizi ai cittadini è tutto da dimostrare. Abbiamo un Paese che ha perso la governance dei principali settori industriali svenduti dallo Stato, solo per esempio Telecom, Ferrovie e Autostrade, con una spinta al contenimento dei costi che causano tragedie oltre a perdita di influenza del sistema Paese nel mondo.

Al secondo punto: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” che in combinata con il terzo – “Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi” – è stato tradotto in Jobs Act e abrogazione dell’articolo 18, mentre le politiche attive languono. Abbiamo visto i risultati: aumento della precarietà, contrazione dei salari reali e aumento delle povertà.

Nei punti successivi: “… più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità” e “Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi”. Sulle pensioni ricordiamo tutti gli ‘esodati’ e l’effetto sulla pubblica opinione della riforma pensionistica che portò a una rapida contrazione dei consumi e di conseguenza del PIL. Non si capisce poi perché quest’accanimento sul numero dei dipendenti pubblici e sulle loro retribuzioni che sono entrambi tra i più bassi d’Europa.

Insomma la visione di Draghi nel 2011 era: riduzione dello Stato nella governance dell’economia, compressione di salari e diritti per rendere più competitive le aziende, riduzione del welfare trasferendo al settore privato tutto il trasferibile. In sintesi una summa delle ricette liberiste che hanno ridotto questo Paese a malpartito. Ricette ritenute salvifiche a dispetto di tutto, tanto da sacrificare anche la democrazia sull’altare delle riforme liberiste con la politica piegata al diktat di Draghi che chiedeva che le riforme “siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011”.

Tutto sommato a noi andò meglio della Grecia, dove le ricette del trio Draghi-Lagarde-Regling spopolarono distruggendo un intero paese e rischiarono di disgregare l’Europa.

A 76 anni Draghi avrà cambiato idea? Salverà la competitività europea? Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.

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