Da una parte Elle, incatenata al cavo del telefono, per metafora e anche non, che cerca la libertà da una relazione ormai avvelenata, distrutta dalla nevrosi – come una mosca che batte la testa sul vetro della finestra. E dall’altra Violetta, che si dimena invano all’interno della nassa in cui è prigioniera suo malgrado, quella dell’unico lavoro che le dà da sopravvivere (il mestiere della traviata, per l’appunto) e delle convenzioni sociali che per chi si ritrova a fare quella vita non prevede mai riscatto né ai tempi di Dumas e di Verdi né ai giorni nostri, se non in Pretty Woman. L’ultima produzione di VoceallOpera – associazione milanese che si è data la missione di portare la lirica in periferia e a basso prezzo – è un dittico dall’alto coefficiente di ambizione e quindi di coraggio: La voix humaine, composta da Francis Poulenc su libretto di Jean Cocteau, messa in scena per la prima volta nel 1959; e La traviata, di Giuseppe Verdi (libretto di Francesco Maria Piave) la cui prima fu nel ’53 ma dell’Ottocento. Due opere divise non solo dai cent’anni che separano le due Prime, ma da forme e sostanze musicali (gli strappi novecenteschi a petto dei valzer verdiani, absit iniuria verbis!), socioculturali e perfino iconografiche che portano in dote. Da un lato un titolo che i teatri italiani frequentano pochino e dall’altro il romanzo lirico per antonomasia, con le arie canticchiate anche da chi di opera non conosce niente e una fama che l’ha trascinato fin dentro le parodie cine-televisive, autentico bollino di popolarità.
Eppure due mondi che apparentemente non hanno niente da dirsi finiscono per avere una lingua comune nelle due recite allo SpazioTeatro 89 di Milano. Anche grazie alla regia di Alessandro Pasini, trentenne bresciano al suo debutto grazie alla vittoria al Concorso Aliverta del 2022, che risalta l’incredibile capacità di questi due capolavori di parlare – dal passato in cui sono state inventate – del tempo che stiamo vivendo.
La Voix humaine è il monologo al telefono di una donna consunta e ossessionata da un amore ormai sfinito e che lei si illude di tenere in vita con quelle ultime chiamate all’ormai ex. Ci sono tutti gli elementi che rendono profetica l’opera di Poulenc-Cocteau sessanta o settant’anni prima degli studi clinici della psicoterapia sulla parola ghosting: la conversazione telefonica che va avanti a pezzi e bocconi per problemi di connessione e interferenze, lui che dice di essere in un posto e invece è in un altro, lei che vive ogni risposta di lui come un’iniezione di euforia immotivata salvo poi precipitare nel baratro quando la linea cade. Pasini aggiunge un’ulteriore dimensione: il telefonino non solo dilata la dipendenza e quindi la tossicità, ma fa da interruttore totalizzante che spinge le conversazioni dal pudore privato della propria abitazione al pubblico, disponibile a tutti. Così il dramma di Elle, nella visione di Pasini, avviene in mezzo a una mostra fotografica, in cui si vedono le immagini provocatorie e sensuali di molte donne, una accanto all’altra. Elle cerca la verità ma non la vuole vedere, gira per le sale, guarda gli scatti appesi ma tutta l’attenzione è inghiottita dal dialogo-non dialogo con l’ex. Non sente bene, allora mette gli auricolari, le cade il soprabito per terra anzi lo butta e chi se ne frega, non controlla il tono della voce, il telefono cocente è a fine batteria, tira fuori il caricatore: è con quel cavo che si avvolgerà il collo, nel finale. E’ prigioniera di un amore già finito: “Après le sommeil il y a les rêves et le réveil et manger et se lever, et se laver et sortir et aller où? Mais, mon pauvre chéri, je n’ai jamais eu rien d’autre à faire que toi”, dopo il sonno vengono i sogni e la sveglia, e mangiare e alzarsi, e lavarsi e uscire, ma per andare dove? Ma, mio povero tesoro, non ho mai avuto nient’altro da fare che occuparmi di te. Brigitte Keusch, soprano che si è alternata nelle recite di VoceallOpera con Luisa Bertoli, è ineccepibile nel rendere espressivamente gli incontrollati sbalzi d’umore, gli sguardi sognanti in ricordo del primo incontro e la finta calma trattenuta, l’angoscia repressa e l’entusiasmo inconsulto e illusorio, fino allo strazio più doloroso quando si affaccia sullo strapiombo.
L’impatto antropologico della tecnologia nelle vite del Duemila attraversa anche la Traviata, messa in scena con la riduzione drammaturgica e musicale di Gianmaria Aliverta, regista e presidente di VoceallOpera. In questa trasposizione Pasini installa il primo incontro tra Violetta e Alfredo su un set fotografico: lui (Alfredo-Haruo Kawakami) scatta, lei (Violetta-Francesca Manzo) posa. Scatta la scintilla ed è il momento di festeggiare, Libiamo ne’ lieti calici, che in questo caso sono bottiglie di Ichnusa. Alfredo perde la trebisonda e si dichiara. Viola mette le cose in chiaro, più che altro a se stessa, come se parlasse ad alta voce: Sempre libera degg’io, folleggiare di gioia in gioia. Mentre specifica che vuole Di voluttà ne’ vortici perir, si presenta per l’appunto una coppia di giovanotti, un lui e una lei, che con fare meccanico-professionale ma anche con un certo non so che nello scambio di sguardi comincia a montare un cavalletto, sul quale poi attacca un cellulare, infine piegato in orizzontale. I tre cominciano a spogliarsi e strusciarsi e, insomma, il certo non so che altro non è che Onlyfans. Alfredo, ignaro o illuso chissà, insiste con le sue zuccherose dichiarazioni d’amore (Amore, amor è palpito dell’universo intero) che però – con un’intuizione felice di Pasini – non arrivano da fuori scena perché “sotto al balcone” come da libretto, ma sono i messaggi che Violetta legge sul (o ascolta dal) telefonino.
Visualizza questo post su Instagram
Alfredo sembra essere riuscito nell’impresa di convincere l’amata, si prende qualche giorno di vacanza e se ne va in settimana bianca (le fatiche del tenore: indossa tuta e giacca a vento e armeggia con un paio di sci; secondo fonti autorevoli, è stato almeno graziato della maglia termica, per fortuna inessenziale). Il padre Giorgio Germont ne approfitta per presentarsi da Violetta e dirle che Alfredo non può stare con una che è arrivata dov’è arrivata facendo vedere le gioie in live streaming. Lei resiste, si intigna, dice che è innamorata e ora ha smesso, ma alla fine cede e tronca il fidanzamento col fidanzato-sciatore appena rientrato con i consueti messaggi lineari (Amami, Alfredo, quant’io t’amo… Addio, cioè il mai vituperato abbastanza “ti lascio perché ti amo troppo”). Violetta va a una festa perché ha bisogno di dimenticare, Alfredo la segue e fa una piazzata che nella regia di Pasini diventa più violenta di nuovo per effetto del cellulare. Grida davanti a tutti (Questa donna conoscete? Che facesse non sapete?) dopo aver acceso una diretta social destinata ai suoi follower, la scelta abietta del pubblico ludibrio che oggigiorno porta i nomi di cyberbullismo o revenge porn. La Violetta di Manzi pare assumere un plus di volontà di autodeterminazione che già la signora delle camelie detiene, l’Alfredo di Kawakami rende quella certa naivite di un personaggio che sembra sempre un po’ in ritardo rispetto agli eventi, mentre Alfonso Michele Ciulla ribadisce con questa prova la carica carismatica anche dentro l’abito elegantone di quel piccolo borghese che è Germont padre: merita nella costruzione del personaggio del vecchio Giorgio la spilletta al petto, simbolo di qualche partitino che rappresenta e indirettamente icona del buon nome della famiglia che infatti vorrebbe trasferire al bavero del figlio. Le scrupolose direzioni d’orchestra di Sirio Scacchetti (La voce umana) e Giacomo Mutigli (Traviata) incorniciano l’ultimo azzardo di successo di VoceallOpera e di Aliverta, regista-produttore-talent scout di under 30 in un mondo che a volte dà l’impressione di volerli rimbalzare all’ingresso. Una volta di più la scommessa è vinta.
Visualizza questo post su Instagram