Uno era un giornalista “che non si arrendeva all’idea di non essere libero” e il Parkinson a 82 anni lo aveva relegato a letto, l’altra era una donna, malata terminale di cancro, che avrebbe “preferito morire” e con la famiglia accanto. Dopo aver accompagnato Romano ed Elena in Svizzera Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e candidato alle suppletive per il Senato a Monza, come aveva fatto in passato, si era autodenunciato. La Procura di Milano, dopo averlo indagato, ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di aiuto al suicidio come del resto era successo in passato per il caso di DjFabo che poi era arrivato fino alla Consulta che aveva emesso la storica sentenza sul fine vita. Non solo Cappato non ha commesso un reato di aiuto al suicidio, “ma anzi” ha consentito “il concreto esercizio del diritto all’autodeterminazione” di due persone che non erano “in grado di esercitarlo autonomamente”. E nel caso il giudice non dovesse accogliere la richiesta la procura rimetterà gli atti alla Corte costituzionale.

La nuova disobbedienza – Per Cappato, nel caso di Elena, si era trattato di una nuova disobbedienza civile, dal momento che la persona accompagnata non era “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale“, quindi non rientrava nei casi previsti dalla sentenza 242\2019 della Corte costituzionale sul caso Cappato\Dj Fabo per l’accesso al suicidio assistito in Italia. La 69enne veneta non dipendeva da dispositivi di trattamento di sostegno vitale, non assumeva farmaci, salvo antibiotici e antidolorifici secondo necessità. Insieme alla famiglia, che comprendeva e rispettava la sua volontà, aveva contattato il Numero Bianco dell’Associazione Luca Coscioni per avere maggiori informazioni. Consapevole di non avere sostegni vitali ha preferito andare in Svizzera senza attendere ulteriormente. “Un’attesa ulteriore, viene sottolineato, avrebbe potuto, infatti, determinare ulteriori sofferenze e peggioramenti vista la progressione della malattia già in fase avanzata”.

O archiviazione o Consulta – Per la procuratrice aggiunta, Tiziana Siciliano, e il pm Luca Gagli, Cappato”ha aiutato a suicidarsi due soggetti, entrambi affetti da patologie irreversibili” e destinati a morire “in tempo relativamente breve”. Malattie fonte per loro “di sofferenze psicologiche e fisiche insopportabili“. Entrambi, poi, “erano capaci di intendere e volere”. I suicidi assistiti, inoltre, sono avvenuti “nel rispetto di procedure equivalenti” a quelle della legge sul consenso informato. E i due, scrivono ancora i pm, avevano “rifiutato la prossima sottoposizione a ‘trattamenti di sostegno vitale’ che potevano scientificamente definirsi come espressione di accanimento terapeutico”.

In pratica, l’interpretazione della Procura assimila la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale “al rifiuto di sottoporvisi” se questi sono un accanimento terapeutico.
Secondo i pm, poi, se il giudice per le indagini preliminari dovesse decidere di non accogliere questa interpretazione, contenuta nell’istanza di archiviazione per “infondatezza della notizia di reato”, la “unica strada praticabile rimarrebbe quella di rimettere nuovamente gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunci sul contrasto, rilevante e non manifestamente infondato, tra il requisito ‘sub C’ inteso in senso restrittivo”, ovvero la condizione prevista dalla Consulta del malato attaccato alle macchina per sopravvivere, “e il parametro di cui all’art. 3 Cost.”, ossia il principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge.

Non punibile – Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, come si legge nella richiesta di archiviazione di 45 pagine, hanno ritenuto di dare una “lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 580 cp”, ossia del reato di aiuto al suicidio, alla luce “degli articoli 2 e 32” della Costituzione, ossia quelli sui diritti inviolabili dell’uomo e sul diritto alla salute, della “sentenza” della Consulta del 2019 dopo il caso Fabo e della legge 219 del 2017 sul consenso informato.

Un’interpretazione innovativa e ‘allargata’ che porta i pm milanesi a ritenere non punibili come aiuto al suicidio, dunque, anche quei casi in cui manchi come condizione il fatto che il malato sia attaccato alle macchine per sopravvivere. E ciò, in particolare, quando il paziente “rifiuti trattamenti” che “sì rallenterebbero il processo patologico e ritarderebbero la morte senza poterla impedire, ma sarebbero futili o espressivi di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non dignitosi secondo la percezione del malato, e forieri di ulteriori sofferenze per coloro che lo accudiscono”. Dopo il noto caso di dj Fabo, passato per un processo a Milano, infatti, la Corte Costituzionale quattro anni fa ha aperto alla possibilità del suicidio assistito a determinate condizioni: quando il malato che ne fa richiesta è affetto da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, e quando è tenuto in vita artificialmente da trattamenti di sostegno vitale. Proprio quest’ultima condizione mancava nei due casi di Romano ed Elena su cui ha indagato la Procura milanese.

Del resto differenziare nell’accesso al suicidio assistito fra pazienti che per “rimanere in vita necessitano (anche) di trattamenti di sostegno vitale” e altri “che necessitano solo di trattamenti terapeutici e per i quali i mezzi di sostegno vitale” sono “soltanto prossimi” a causa di “fattori del tutto accidentali, che dipendono dal tipo di patologia” è “contrario all’articolo 3 della Costituzione“.

La reazione di Cappato – “Si conferma così il valore della sentenza della Consulta, nel poter dare risposta concreta ai pazienti irreversibili che chiedono aiuto medico per terminare la propria vita ponendo fine a sofferenze insopportabili, anche in assenza di una legge specifica che comunque non potrebbe andare contro i principi costituzionali – commenta Cappato – La richiesta di archiviazione da parte della Procura di Milano nei miei confronti è una buona notizia. Resto in attesa di conoscere con i miei legali le motivazioni. La decisione della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo – spiega ancora – ha evidenziato dei requisiti affinché un malato possa accedere all’aiuto alla morte volontaria. I malati che ho aiutato e per i quali mi sono autodenunciato erano incurabili, in una fase delicata delle proprie patologie che avrebbe determinato l’impossibilità di esercitare il loro volere, ovvero quello di autosomministrarsi un farmaco per dire basta alle proprie sofferenze”.

“Attendiamo di conoscere le motivazioni della richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Milano e cosa deciderà il gip – ha aggiunto Filomena Gallo, segretaria nazionale Associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio di difesa di Marco Cappato – . L’obiettivo della disobbedienza di Marco Cappato è quello di fare chiarezza affinché un malato pienamente capace e cosciente delle proprie scelte nelle condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale possa decidere senza rischi legali per la propria famiglia”. “Tutto ciò è determinato dalla mancanza assoluta di volontà politica nel nostro Paese – ha concluso Gallo – di emanare una buona legge che parta dalla sentenza della Corte e che riconosca a tutti i malati che ne fanno richiesta il pieno rispetto della libertà di scelta”.

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