Quando, nel 1780, i fratelli Giuseppe e Paolo Botero salparono dal porto di Genova per emigrare alla volta di Medellin, non immaginavano certo che proprio là, 152 anni dopo, nel 1932, sarebbe nato un loro discendente, Fernando Botero, destinato a diventare, nel corso di una lunga vita che ha attraversato due secoli, non solo il più importante artista della storia dell’arte colombiana, ma anche una mega star internazionale riconosciuta ed amata dal pubblico del mondo intero, anche se a lungo poco compresa da buona parte degli addetti ai lavori.
Il segreto dell’incredibile successo di Botero sta in una fortunata intuizione giovanile alla quale resterà, per il resto della sua vita, ostinatamente fedele: immaginare e rappresentare con grande perizia e talento un universo a lui proprio, dai colori piatti e brillanti e dalle forme e proporzioni dilatate, audacemente delineate, popolato di uomini, donne e bambini grassi; di pingui borghesi, prostitute e musicisti, e persino di mafiosi morti e di Gesù Cristi sensualmente ed ironicamente sovrabbondanti, e al tempo stesso staticamente lievi, e sempre immersi in una sognante ed enigmatica inespressività.
Nel mondo alternativo di Botero, entrato nei decenni a far parte dell’immaginario collettivo e divenuto proverbiale, tutto è tondeggiante ed esagerato: i paesaggi, le architetture, gli interni, gli animali, il cibo onnipresente ed una varietà di nature morte e di oggetti, dalle forchette ai bottiglioni agli strumenti musicali, a cominciare dal famoso mandolino obeso del 1957 con cui per la prima volta tale intuizione si rivelò.
A partire da allora, questo discendente di emigranti italiani, proveniente da una famiglia piuttosto umile, orfano di padre a quattro anni, e che come tanti artisti per anni aveva fatto la fame, sceglie definitivamente la via dell’abbondanza: una scelta quanto mai fausta e lungimirante, visto che sarà, per l’appunto, abbondantemente ricompensata dal progressivo trionfo commerciale dei suoi corpulenti personaggi, i quali si evolveranno dalle atmosfere quasi baconiane dell’inquietante reinterpretazione del Niño de Vallecas di Diego Velázquez del 1959 verso la luminosa ed ironica armonia espressiva del Botero più maturo che tutti conoscono e riconoscono.
Il suo linguaggio espressivo, fondato sullo studio dell’arte precolombiana e dei classici soprattutto italiani del Rinascimento, eppur così innovativo, unico e distintivo, sviluppato con passione, costanza e disciplina attraverso un numero incalcolabile di dipinti e, più tardi, attraverso la scultura, ha ignorato e superato tutto il vano ed infinito dibattito condotto da esigue minoranze di iniziati su cos’è o cosa non è l’arte contemporanea, per affermarsi presso il grande pubblico come brand inconfondibile dal successo planetario.
Botero ha avuto il grande merito di credere profondamente per tutta la sua vita nella propria intuizione, sostenuto da una vera e propria vocazione sacerdotale per l’arte, e soprattutto per la pittura, come vera via per la felicità, e come terapia dell’anima, come mostrano i sensibilissimi dipinti dedicati al figlio Pedrito, morto tragicamente a quattro anni in un incidente d’auto.
Ma perché Botero scelse, fin da giovane, di rappresentare un mondo fatto di grassi? Di certo non perché fosse egli stesso grasso, perché grasso non fu mai, nemmeno a tarda età.
Possiamo supporre che, al contrario, fu proprio il fatto di avere dovuto tirare la cinghia da giovane a orientare il gusto di Botero verso la creazione di questo suo mondo d’abbondanza; così come certamente l’osservazione ravvicinata della tauromachia colombiana, oggetto delle sue prime rappresentazioni adolescenziali, non fu estranea alla nascita del suo interesse per lo studio e la rappresentazione dei suoi volumi ampi e dilatati, che approfondirà e perfezionerà durante i due anni del suo soggiorno fiorentino nei primi anni 50.
La dilatazione boterista delle forme ha secondo molti lo scopo di esprimere sensualità, essendo associata al piacere, al desiderio e all’esaltazione della vita, e rappresenterebbe concezioni ancestrali radicate nel sostrato culturale delle società primitive, America Latina compresa, secondo le quali bellezza e abbondanza sono concetti strettamente collegati, come conferma anche da noi il detto omo de panza, omo de sostanza.
Ma l’universo di Botero ha poco a che vedere con l’etno-psicanalisi o con l’antropologia psicoanalitica: si tratta bensì di un universo ironico e satirico (che per questo fu accusato di caricaturismo, ma che può raggiungere punte di alta drammaticità, come dimostrato per esempio dalla serie dedicata a Abu Grahib o nella Via Crucis) che, malgrado il figurativismo, non ha nessuna ambizione di rappresentare la realtà.
Come egli stesso ha più volte dichiarato, “l’arte è esagerazione. Io non dipingo donne grasse, dipingo volumi. Quando dipingo una natura morta dipingo sempre un volume, se dipingo un animale lo faccio in modo volumetrico, e lo stesso vale per un paesaggio. Non ho affatto un’ossessione per le donne grasse”.
E infatti, nella sua vita privata, Botero accordò sempre la sua preferenza a donne fini ed eleganti, come dimostrano le foto delle sue tre mogli: Gloria Zea, grande personalità dell’arte e della cultura colombiana, dalla quale tra il 1955 e il 1960 avrà tre figli; Cecilia Zambrano, la mamma di Pedrito, sposata nel 1965, e dalla quale si separerà in seguito al dramma della morte del bambino avvenuta nel 1974; ed infine la sua ultima musa, la pittrice e scrittrice greca Sophia Vari, con cui condivise l’esistenza per quarantasette anni, fino alla morte di lei, avvenuta nel maggio di quest’anno a Montecarlo.
Da pochi giorni, il 15 settembre, dallo stesso luogo è partito verso l’immortalità anche Fernando Botero. Di vera immortalità si tratta, perché resta per sempre il suo universo che ha ormai, irrimediabilmente, pervaso anche la nostra realtà. Le sue sculture monumentali sugli Champs-Elysées o a Pietrasanta hanno cambiato per sempre il paesaggio e l’immaginario collettivo, dimostrando la forza della sua intuizione originaria: il desiderio di un mondo senza spigoli, dove regna l’abbondanza.
Fernando Botero ha concluso in vita molto di più di quanto qualunque artista vivente possa anche solo sognare: è vissuto abbondantemente della propria arte, ha inorgoglito il suo paese e cambiato il mondo, sempre infischiandosene della critica, e vivendo tutta la esistenza come piaceva a lui: nell’armonia e consolazione della propria creazione, fino all’ultimo.