Giovanni De Marchi, torinese, classe 1866: uno dei tanti emigrati italiani che tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 cercarono fortuna, lavoro o rifugio nelle Americhe. Poteva essere una storia come tante quella di Giovanni (Juan), però il destino aveva per lui in serbo qualcosa di diverso. Questo nostro compatriota arrivò in Argentina sul finire del XIX secolo, precisamente nel 1893, e non tardò nel manifestare la sua adesione a quei movimenti anarchici che trovavano in Errico Malatesta e Pietro Gori le loro guide intellettuali.

Nell’orbita del movimento Umanità Nuova, nome con il quale Malatesta fondò il famoso giornale anarchico nel 1920 a Milano, De Marchi si impegnò nelle lotte che scuotevano le fondamenta delle giovani repubbliche latinoamericane, dove le oligarchie banchettavano sulle spalle di migliaia di lavoratori in condizioni di semi schiavitù. Emigrato in un Cile convulso attraversando la cordigliera delle Ande, De Marchi si dedicò alla calzoleria, stabilendosi nella città marittima di Valparaíso. Il Cile nel quale l’anarchico italianò si stabilì era un paese scosso e in subbuglio, con scioperi e manifestazioni represse nel sangue (come lo sciopero della carne nell’ottobre del 1905).

Nel 1906, proprio Valparaiso, che contava all’epoca con una popolazione di 150 mila abitanti, soffrì un terribile terremoto che distrusse la città vecchia. L’anno successivo, il 21 dicembre 1907, ebbero luogo i terribile fatti della Scuola di Santa María de Iquique, un massacro compiuto dall’esercito cileno contro lavoratori in sciopero: si stimano tra i 2000 e 3600 morti anche se le fonti dello Stato dissero all’epoca solo 126. E proprio a Iquique, Luis Emilio Recabarren fondò nel 1912 il Partito Operaio Socialista (che sarebbe poi diventato il Partito Comunista Cileno nel 1922).

Successivamente, un altro duro colpo a Valparaiso fu dato dall’apertura il 15 agosto 1914 del Canale di Panama, avvenimento epocale che cambiò definitamente le rotte marittime della regione, condannando ineluttabilmente lo storico porto cileno all’oblio e alla depressione economica.

In questo enorme sommovimento sociale e politico, come già sottolineato, le correnti anarchiste provenienti dall’Europa avevano indicato un cammino e lo stesso Malatesta era stato un ponte intellettuale tra il “vecchio” e il “nuovo” mondo, producendo sforzi di propaganda, organizzazione e sensibilizzazione in Argentina, Uruguay e Cuba sul finire XIX secolo. Tra il 1900 e 1930 però, come ho avuto modo di raccontare nel lavoro accademico pubblicato all’Università Politecnica del Nicaragua ¿Qué influencia ha tenido y tiene el anarquismo en América Latina?: un análisis desde finales del siglo XIX hasta nuestros días, germogliò il pensiero anarchico latinoamericano, che cominciò a separarsi dai “classici” europei per seguire un percorso nazionale/locale con una prospettiva di ricadute regionali.

Ogni gruppo anarchico dovette affrontare sfide e lotte simili nel proprio Paese, ma allo stesso tempo diverse, che richiedevano adattamento e adesione ideologica allo strato sociale di riferimento. In questo contesto l’anarchico Giovanni De Marchi, nella sua piccola bottega di Valparaiso, incontrò un giovane liceale cileno, un ragazzo borghese, accomodato, che iniziò a fargli visita e a parlare con lui, mentre il “nostro” lavorava e puliva le pelli con le quali avrebbe poi confezionato le scarpe. Siamo nel 1922, De Marchi ha quasi 60 anni e una vita di migrazione, lotta e ideali alle spalle: di fronte a lui un ragazzo di 14 anni, affamato di verità, una verità diversa da quella che ascolta negli ambienti agiati nei quali è nato, lui figlio di un notaio e discendente di una famiglia aristocratica.

Non è difficile immaginare la curiosità e la fascinazione con la quale un giovane assetato di conoscenza abbia attinto dalla passionarie parole di un militante anarchico contemporaneo di Gori e Malatesta (tra gli altri), che parlava di libertà, di fratellanza, di uguaglianza e di ribellione. De Marchi offrì le sue memorie con l’ardore di chi ha speso la sua vita immaginando un mondo migliore, iniziò a prestare dei libri a quel giovane ragazzo cileno e gli trasmise i rudimenti di idee di sinistra che sarebbero poi germogliate in un modo che nemmeno lui poteva immaginare.

Quell’adolescente si chiamava Salvador Guillermo Allende Gossens e l’11 settembre 1973, in qualità di Presidente della Repubblica cilena, avrebbe dato la sua vita, in un Palazzo della Moneta assediato dai golpisti, per difendere quegli stessi ideali fatti crescere tra l’odore del cuoio e del salmastro di Valparaiso.

Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà e un pensier ribelle in cor ci sta…” cantava per l’appunto Pietro Gori. Régis Debray, controverso scrittore e intellettuale francese, ebbe la possibilità di intervistare Salvador Allende quasi 50 anni dopo e nel libro pubblicato da Feltrinelli in Italia nel 1971 “La via cilena: intervista con Salvador Allende” consegnò ai posteri questo ricordo del leader cileno su Juan De Marchi: “Appena finite le lezioni andavo a parlare con questo anarchico che ha avuto davvero molta influenza sulla mia vita di ragazzo. Aveva 60, o forse 63 anni, e chiacchierava volentieri con me. Mi ha insegnato a giocare a scacchi, mi parlava delle cose della vita e mi prestava libri”.

Anche il famoso regista cileno Patricio Guzmán Lozanes, nel suo lavoro documentale del 2004 intitolato La batalla de Chile. Salvador Allende, riporta come momento chiave nella vita di Allende l’incontro con De Marchi (dal minuto 16.30 del documentario), mentre conversa con persone che hanno avuto la possibilità di condividere momenti di vita con il leader cileno. Persone che affermano senza titubanza che Giovanni De Marchi fu il primo maestro che ebbe Allende nella sua condizione di “luchador social”.

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