Le decisioni del governo sui migranti ci portano vicini al punto di non ritorno: a forza di soffiare sul fuoco i nazionalisti infiammeranno l’Italia e l’Europa, provocando nuovi “pogrom” e liquidando la democrazia (tanto il capitalismo non ne ha più bisogno).
Quanto grave sia la situazione sul piano culturale, prima ancora che politico, me lo ha fatto pensare un commento di un amico, persona colta ed intelligente, ad un mio post su FB nel quale stigmatizzavo l’incoerenza di una destra che vorrebbe il crocefisso obbligatorio in scuole e uffici pubblici, con ovvio corredo di punizioni esemplari per i riottosi e le scelte segregazioniste portate avanti in diverse direzioni, non soltanto contro quegli “scarti della globalizzazione” (cit. Papa Francesco) che sono i migranti. Nel commento, che cominciava con le parole “non capisco il nesso” (cioè: dove sta l’incoerenza tra Gesù e la segregazione?), si faceva forte di due fatti di cronaca adoperati in maniera, per me, sconvolgente: il tizio che ha ammazzato il ragazzo a Milano era un tunisino, quell’altro che ha travolto con la macchina il ragazzino era un egiziano.
Mi si è gelato il sangue.
Ma come: ci sono voluti secoli di tragedie e di elaborazione culturale, animata spesso da pensatori di formazione cristiana, per fissare un principio giuridico tanto fondamentale da essere diventato per la Repubblica italiana valore costituzionale e cioè che la responsabilità penale è personale e tu, amico colto, me lo spazzi via così? Affermare che la responsabilità penale è personale significa affermare che la sanzione penale di una condotta dipende esclusivamente dalla condotta in se stessa apprezzata e che a nulla rileva se ad averla posta in essere sia un bianco o un nero, un cristiano, un ebreo o un musulmano. Questo fondamentale principio giuridico riflette la più grande battaglia vinta dalla cultura europea e cioè quella sul dispotismo del più forte come fonte dell’ordine sociale, che spesso si è tradotto nel dispotismo del gruppo dominante (i “bianchi”, gli “italiani”, gli “ariani”, i “cattolici”).
Nella mia città, Torino, attraversando la splendida Piazza Castello capita di calpestare una grande lapide in bronzo che fa sacrosanta memoria dell’ultimo pastore valdese bruciato vivo, perché “diverso” (Goffredo Varaglia, 1558). Proprio nei pressi di questa lapide si dà appuntamento il movimento “Non una di meno”, che protesta contro una delle più odiose forme di dispotismo del gruppo dominante: quello dei maschi. A conferma che la lotta contro il dispotismo, in favore del rispetto dell’inviolabile dignità di ciascun essere umano, è lontana dal terminare.
La “normalità” è un prodotto dei rapporti di forza e se saremo deboli noi convinti che “ogni uomo nasce libero ed uguale”, allora diventerà sempre più “normale” imprigionare i migranti fino a 18 mesi, espellerli in massa, pagare lautamente i “cani da guardia” dei nostri confini, cacciarli dalle città o sfruttarli nelle campagne.
Resistere alla “normalità” dei nazionalisti richiede forza morale e studio per non cadere nelle trappole della loro retorica a reti (ormai) unificate, come quando la Meloni dice che impedire con ogni mezzo l’immigrazione clandestina è un modo per combattere il caporalato nelle campagne e che al contrario, non opporvisi, sarebbe un modo per favorire lo sfruttamento lavorativo. Come se nelle campagne ad essere sfruttati fossero soltanto o in prevalenza irregolari e non persone regolarmente presenti sul nostro territorio, spesso veri italiani (!), condannati dalla mancanza di lavoro. Come se il problema non fosse chi sfrutta e cioè i “padroni”, ovvero le aziende che approfittano della vulnerabilità di uomini e donne, ma la manodopera che si lascia sfruttare. In questo la Meloni si rivela degna compagna del Giambruno televisivo: anche i braccianti insomma, come le ragazze, se la vanno a cercare.
Come se non fosse possibile investire su una lungimirante cooperazione tra Europa ed Africa, che riscriva il paradigma plurisecolare del colonialismo e non si limiti a finanziare spot pubblicitari che invitino i giovani africani a starsene a casa propria (come avrebbe fatto la Regione Piemonte in Senegal, su impulso dell’immancabile assessore Marrone, secondo Il Giornale). Certo che sarebbe possibile, ma bisognerebbe credere nell’uguaglianza e non soltanto nella libertà (di chi ce l’ha), bisognerebbe vedere nell’Unione europea la base per una grande Repubblica federale, capace di stare al mondo autonomamente e non soltanto un condominio litigioso, buono per spartirsi soldi ed pronto a farsi concorrenza sleale. Ma per farlo bisognerebbe ispirarsi ad Altiero Spinelli e non a Renaud Camus.