Il racconto forsennato di una plateale disillusione e di una insperata rinascita. Ammettiamo che prima di leggere, avevamo pensato di trovarci di fronte a qualche vacua frivolezza e doverci mettere a vergare righe di dileggio, invece il memoir repettiano mescola con disinvoltura Chaplin e Baudelaire, il significato dei barattoli Campbell’s di Warhol e della madaleine proustiana
“E il biondino che salta dietro che cazzo c’entra?”. Se volete regalare un libro a vostro figlio che sbava per andare a X Factor o registrare intere piste di nauseante hip hop, così poi da vederlo tornare a casa con la voglia di diventare elettricista, comprate Non ho ucciso l’uomo ragno (Mondadori). L’ha scritto (quanto Massimo Cotto e quanto lui dovrebbero segnalarlo con percentuali) Mauro Repetto. E Repetto è il “biondino” che saltava, spesso non inquadrato, dietro Max Pezzali nei primi anni novanta. L’anima ballerina e inutile degli 883, insomma.
Quello di cui non si sentiva la voce, anche se alzavano il microfono verde, anche se all’inizio di tutto nelle prime cassettine del duo cantava lui e Pezzali saltellava come nella pubblicità della Uno Rap. Repetto ha una storia biografica da mostrare che forse qualcuno di voi conoscerà, forse non così nei dettagli, ma soprattutto che non ha mai conosciuto attraverso le parole taglienti e i paragoni caustici di Repetto stesso, verso se stesso. Non ho ucciso l’uomo ragno è naturale mimesi e insperata dolorosa catarsi in una manciata di fuggevoli atti. Il racconto forsennato di una plateale disillusione e di una insperata rinascita. Ammettiamo che prima di leggere, avevamo pensato di trovarci di fronte a qualche vacua frivolezza e doverci mettere a vergare righe di dileggio, invece il memoir repettiano mescola con disinvoltura Chaplin e Baudelaire, il significato dei barattoli Campbell’s di Warhol e della madaleine proustiana senza far sentire lo stridore dell’innaturalezza. “E forse quel che cerco neanche c’è” poteva intitolarsi il libro. Racconto che riannoda i fili di un passato anni ottanta tra scuola e parrocchia di Pavia dove Repetto e Pezzali adolescenti si incontrano.
Chiodo fisso: diventare rapper. Ogni pomeriggio a campionare (nessuno dei due sapeva e sa suonare strumenti musicali), poi il lungo pellegrinaggio delle sette chiese musicali al Nord. Sempre con Mauro “faccia come il culo” davanti “e Max tre metri dietro, sempre”. L’aneddotica è spassosa e tipica del settore: i due compongono localmente i futuri successi come Come mai, Una canzone d’amore, Finalmente tu, Tieni il tempo, Non me la menare, ma come dice un tizio della Warner Chappel, che giusto un giorno si decide a passare i loro brani a Massimo Ranieri (a proposito, Massimo, ti sono mai arrivati?): “fa cagare non c’è l’idea”. Sarà Claudio Cecchetto, e in parte Jovanotti, a lanciarli come I Pop, e poi come 883 (il nome è farina intuitiva di Pezzali)e in nemmeno tre anni (1991-1994)a farli diventare idoli di un pop italiano baldanzoso e impunemente rockeggiante.
Ma Mauro carico come una molla per abbordare impresari e discografici, è quello che invece molla quando si trova praticamente all’apice. Complice la sindrome Ballo (il bassista di Cremonini) ma senza il basso: insieme siamo band ma nessuno sa esattamente cosa ci faccia io lì. Repetto lo ricorda tristemente più volte quel momento fatidico in cui prima di salire sul palco del Cantagiro deciderà di mettersi a ballare. Sculettare, per l’esattezza, mentre Max canta. Così, anche se l’idea di Pezzali voce solista fu proprio di Repetto che gliela impose in tempi non sospetti, la spalla si rompe, il secondo non ne vuole più sapere di stare dietro, fuori dall’inquadratura, lontano dal primo piano. “Il sogno che mi aveva nutrito mi stava divorando”. Repetto fugge all’improvviso nel marzo del 1994, mentre gli 883 stavano iniziando a registrare il nuovo album. Lo dice a Pezzali che non sembra scomporsi troppo. Destinazione Miami. Il primo obiettivo è ritrovare la modella Brandi Quinones di cui era innamorato. E non la trova. Il secondo obiettivo è andare a Los Angeles e vendere la propria sceneggiatura per un film. Incontra per caso Martin Scorsese, ma lo script non lo vende. Poi ecco New York. L’ipotesi di registrare un disco rap sborsando 100mila dollari. E non ci riesce. Intanto Mauro il magrolino diventa grosso come un marcantonio. Incrocia pure Brad Pitt prima di entrare in palestra a fare body building. Poi di nuovo torna in Italia e registra un album con Cecchetto da solista – ZuccheroFilatoNero – ma invece di darsi ai live si ubriaca e fa la fine di Bradley Cooper in E’ nata una stella. Insomma, siamo ancora nel ’95 e Repetto vuole sparire del tutto.
Destinazione Parigi. E questa volta mira basso, bassissimo. “Livello inferiore all’operaio” a Disneyland. Vestito da cowboy o marinaio controlla il funzionamento delle giostre e delle luci e non si sente più ridicolo. “Con il nasone rosso e le scarpe da clown mi facevo pena. Ora indosso i panni del cowboy ma ho acquisito la dignità”. Un giorno si fa “fantasma” fermandosi a guardare le persone che scendono dai treni. Il biondino chi cazzo era non c’è più. Ora c’è un uomo nuovo, felice per la sua ritrovata non eccezionalità. Poi certo in Non ho ucciso l’uomo ragno c’è spazio per un ritrattino di Pezzali piuttosto acidulo. Va bene il “non lavoravamo insieme, eravamo una persona sola”, ma Max che dorme fino alle due del pomeriggio senza mai fare una mazza, che è “tendente al grassottello”, che appunto rimane sempre “tre metri indietro”, o ancora “troppo concentrato nella sua parte, a diventar quello che non aveva mai voluto essere un cantante, un leader”, fa una figura piuttosto barbina. Eppure la ricostruzione letteraria di Repetto, divisa tra gerarchie storiche e patemi interiori, sa di autentico e di profondo, perfino di psicologicamente educativo. Timing narrativo perfetto, apparizioni e sparizioni celebri che impreziosiscono i flashback, e un suggerimento mentale: meglio immaginarsi toro che ammazza il torero. Ancor più catartico del live 2022 a San Siro e di un brano del riavvicinamento che verrà.