“Non è errato parlare di pulizia etnica su quanto sta accadendo in Nagorno-Karabakh“. A parlare è Silvia Boltuc, analista specializzata in conflitti nello spazio post-sovietico e fondatrice dell’osservatorio geopolitico Special Eurasia, che nel commentare l’attacco da parte delle forze militari dell’Azerbaigian contro i “terroristi” della autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh sottolinea come i cittadini di etnia armena residenti nella regione montuosa del Caucaso ufficialmente sotto la giurisdizione azera siano da sempre sottoposti a pesanti discriminazioni. “Giornalisti e attivisti locali hanno più volte documentato forti atteggiamenti nazionalisti e razzisti verso gli armeni nel Paese. Ai bambini viene insegnato di bruciare e calpestare le bandiere dell’Armenia mentre chi vive in Nagorno-Karabakh ha paura del governo azero, ritenuto inaffidabile e intimidatorio”, racconta a IlFattoQuotidiano.it l’analista. “Gli abitanti della zona si sono spesso ritrovati senza gas e riscaldamento”, continua, mentre il blocco del corridoio di Lachin, unica via di collegamento con l’Armenia, lo scorso aprile ha interrotto l’approvvigionamento di beni di prima necessità ai cittadini dell’area.
Se tutti i nodi vengono al pettine, quello tra Azerbaigian, Armenia e Nagorno-Karabakh era un groviglio annunciato. Questione irrisolta sin dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, l’enclave armena è sotto il controllo di Baku da quando, nel 2020, l’Azerbaigian ha vinto la Seconda Guerra del Karabakh, un conflitto durato solo 44 giorni grazie all’impiego di droni provenienti da Turchia e Israele con cui ha ripreso la regione del Karabakh e sette distretti persi durante la prima disputa territoriale con Erevan, tra il 1988 e il 1994. Oggi il Nagorno-Karabakh è un’area la cui popolazione è di prevalenza armena e di fede cristiana, non è riconosciuta a livello internazionale e fa ufficialmente parte della Repubblica dell’Azerbaigian, ma ha un governo semi-autonomo autoproclamato che mantiene stretti legami con l’Armenia.
La comunità internazionale è stata storicamente prudente nei rapporti con l’Azerbaigian a causa del potere contrattuale che il Paese detiene grazie ai grandi rifornimenti di gas che vende all’Europa, ma sembra oggi meglio disposta a condannare le violenze di Baku. Secondo Boltuc, il cambio di approccio è da giustificarsi in maniera duplice: “Da una parte le attività di lobbying della diaspora armena in Paesi come Stati Uniti e Francia è stata in grado di portare avanti la causa armena. Dall’altra il conflitto in Ucraina ci porta a leggere quanto avviene negli ex Paesi dell’Urss in ottica anti-russa”, spiega. C’è poi chi più di altri starebbe provando a beneficiare di questo cambio di equilibri. “Gli Stati Uniti vedono delle opportunità nel Caucaso in Paesi come Armenia e Georgia e stanno provando a intensificare i rapporti con Erevan, come dimostrato dalle recenti esercitazioni militari condotte nella zona”, spiega Boltuc. Con la Russia distratta dalla sua personale invasione e il ruolo di garante di pace di Mosca nel giardino ex sovietico che viene meno, l’influenza statunitense potrebbe riuscire a farsi strada.
Una strada che, secondo Boltuc, potrebbe portare a un approccio più aggressivo da parte dell’Azerbaigian e al contempo a un graduale abbandono della causa dei separatisti da parte dell’Armenia. “Gli armeni del Nagoro-Karabakh hanno specificità culturale diverse ma hanno sempre ricevuto il supporto dei cittadini in Armenia”. Anche per questo a poche ore dall’inizio dell’operazione militare azera nel Caucaso, diversi manifestanti armeni hanno tentato di prendere d’assalto il palazzo del governo per protestare contro la scarsa iniziativa del primo ministro Nikol Pashinian nel supportare i separatisti. “L’armenia è rimasta isolata da Turchia e Azerbaigian dopo la sconfitta nella Seconda Guerra del Karabakh, non riesce a dare respiro alla propria economia e potrebbe scegliere di abbandonare il Karabakh in cambio di una pace perpetua e la riapertura dei confini“, ipotizza l’analista. Ancora cauto tuttavia l’approccio dell’amministrazione Pashinian, considerata la pronta opposizione del popolo armeno. Un dettaglio però, lascia trasparire le possibili intenzioni future di Erevan: “Tra le esercitazioni congiunte con Washington, era inclusa una esercitazione di contenimento delle proteste”. Presagio di conflitti interni, in previsione di lasciarsi alle spalle quelli nell’esterno Azerbaigian.