Il “rancore” di chi si sentiva “non considerato” dalla moglie, che lo rifiutava da anni; la paura di non riuscire a garantire alla famiglia l’abituale sicurezza economica a causa di un errore sul lavoro che temeva – nonostante le rassicurazioni di un avvocato – potesse provocare una richiesta di danni insostenibile. Bastano 32 pagine ai giudici della Corte d’Assise di Busto Arsizio, che il 21 luglio scorso hanno condannato all’ergastolo Alessandro Maja, a mostrare le radici della mattanza avvenuta prima dell’alba del 5 maggio 2022a Samarate. Con una mazzetta da carpentiere, l’uomo, interior designer senza alcun reale problema economico, provocò lo sfacelo dei crani della moglie Stefania Pivetta, della figlia Giulia, 16 anni, e del figlio Nicolò, all’epoca 24enne. La prima fu anche sgozzata con uno dei due coltelli trovati insanguinati, anche se i giudici non hanno riconosciuto l’aggravante della crudeltà. Per i giudici “è pacifico che un atto tanto violento sia considerato moralmente inaccettabile dalla Corte”, ma non l’hanno riconosciuta perché non sono stati compiuti atti aggiuntivi “tale da prolungare la sofferenza delle vittime”. Nicolò, che ha rivisto per la prima volta il padre nel febbraio del 2023, dovrà affrontare ancora lunghissime cure.
Lo sterminio della famiglia – “Non vi è dubbio alcuno che Alessandro Maja volesse eliminare tutti i membri della propria famiglia, forse anche se stesso”, scrivono i giudici nelle motivazioni, ricordando che l’uomo, prima di essere arrestato, gridò “Bastardi, li ho ammazzati tutti“. Il 59enne fu trovato “con i segni di un cruento tentativo di suicidio” in una casa dove i carabinieri arrivati, trovarono la mazzetta e i coltelli e anche un trapano Bosch “ricoperto di sangue, sulla cui punta era presente materiale biologico”. I magistrati hanno spiegato come dal confronto degli specialisti nominati per sondare le capacità di intendere e di volere dell’imputato – che si sentiva trattato “come un servo” – non sia emersa nessuna patologia che potesse incidere sulla volontarietà della strage. Nessuna “depressione maggiore” è stata individuata in Maja, così come sostenuto dal consulente della difesa. Per lo psichiatra forense non c’è “nessuna condizione psicopatologica”, ma della vita di un uomo da cui sono emersi: “… la relazione con la moglie, i rapporti con il figlio Nicolò e le di lui difficoltà scolastiche, le dinamiche della vita familiare, le sopravvenute difficoltà lavorative ed economiche, nonché la paura di non riuscire più a garantire alla famiglia le precedenti condizioni di agiatezza che lo aveva indotto a fare strage dei familiari”.
Era lucido, nessuna malattia mentale – Per i giudici, che citano la consulenza dello psichiatra forense professor Marco Lagazzi, l’imputato poteva quindi essere processato e giudicato. Nelle motivazioni vengono allineati i fatti così come si erano presentati ai soccorritori, che entrando in casa, avevano trovato i corpi devastati dai colpi, e cioè che al momento dell’intervento dei soccorritori, l’imputato sembrava “lucido e ben orientato nello spazio, e come non siano emersi nel passato di Maya problemi di carattere psicologico o, men che meno, psichiatrico, con il suo medico di base che ha dichiarato di non conoscerlo neppure“. Un uomo sano, anche se assillato da una preoccupazione continua di non reggere economicamente, seppure il conto corrente sfiorasse i 300mila euro: così insistente da essere invitato dal legale a cui si era rivolto a farsi una vacanza e stare con la famiglia. “Un uomo che non ha mai sviluppato dipendenza da sostanze o farmaci né è stato oggetto di attenzione o cura da parte dei servizi psichiatrici territoriali”.
Sì alle attenuanti, ma con un peso diverso dalle aggravanti – A Maja sono state riconosciute le circostanze attenuanti perché ha permesso l’acquisizione di tutti gli atti delle indagini. E il suo comportamento processuale ha quindi evitato alle parti civili lo strazio della “dettagliata ricostruzione dibattimentale, anche in termini medico legali, del gravissimo fatto di sangue in danno dei loro stretti congiunti; tale ricostruzione, altrimenti inevitabile, avrebbe reso, se possibile, ancor più insopportabile l’enorme dolore avvertito per la morte cruenta dei loro cari, provocata peraltro dalla condotta di una persona che le parti civili amavano o alla quale erano affettivamente legate” scrivono i giudici nelle motivazioni. Questo ha anche evitato che il figlio sopravvissuto dovesse salire sul banco dei testimoni. Tuttavia, per i giudici, questo non può avere lo stesso “peso sulla bilancia” delle circostanze aggravanti contestate dalla procura di Busto Arsizio: come quella di aver massacrato la sua famiglia in casa mentre dormiva.
Nessun pentimento, offerta somma irrisoria al figlio – L’uomo – che in aula ha chiesto “perdono per qualcosa di imperdonabile – non ha mai mostrato alcuna “forma di pentimento”, soprattutto verso la moglie che non aveva probabilmente perdonato per una relazione avuta dalla donna prima che si sposassero. Per i magistrati, “tali raccapriccianti delitti sono stati commessi all’interno delle pareti domestiche, in piena notte o poco dopo, quando le vittime dormivano serenamente nei loro letti, ritenendosi protette da quelle pareti, e sono stati realizzati da colui dal quale i congiunti credevano di avere ulteriore protezione e sostegno e nel cui affetto confidavano, e che, invece, con dolo di molto rilevante intensità, reso processualmente evidente dall’ammissione di avere avuto l’intenzione di sopprimere tutti i membri della propria famiglia, decise di porre fine alle loro vite (riuscendovi – fortunatamente – solo in parte). I magistrati non dimenticano di mettere in rilievo che il professionista aveva proprietà e almeno 270mila euro sul conto, “ma non ha offerto al figlio Nicolò, gravemente leso nella sua integrità, alcun risarcimento del danno o sostegno finanziario per affrontare le lunghe e complesse cure a cui dovrà continuare a sottoporsi, al di là della somma offertagli una tantum che, per la sua relativa irrisorietà, è risibile, se non canzonatoria”. “La sentenza è ineccepibile e ben motivata. Le risultanze processuali hanno confermato che l’imputato era capace d’intendere e voler al momento degli omicidi. Pertanto ritengo che la pena applicata sia equa” spiega l’avvocato di parte civile Stefano Bettinelli.