Cinema

L’ultima luna di settembre, dalla Mongolia un’opera filosoficamente no global

di Davide Turrini

“La mia lettera d’amore al patrimonio culturale mongolo”. Il regista e attore protagonista Amarsaikhan Baljinnyam descrive così il suo film L’ultima luna di settembre, nelle sale italiane dal 21 settembre grazie ad OfficineUbu. È curioso che quando si tratta di paesi lontani, di popolazioni e tradizioni pressoché sconosciute (qui quella della Mongolia) che cercano di mantenere intonsa la propria identità storica, dall’Occidente ipermodernista e globale sia tutto un frinire di entusiasmi. Mentre se qualche paese occidentale cerca di mantenere briciole di tradizioni proprie è tutto un dramma di bieco conservatorismo. Certo, L’ultima luna di settembre è un’opera filosoficamente no global, inerpicata prima di tutto sul rapporto tra uomo e natura, di una vocazione antitecnologica e autodafé.

Mentre si trova a lavorare in una grande città, Tulgaa (Baljinnyam) viene raggiunto da una rocambolesca chiamata allo smartphone. Dal lontano villaggio sulle alte colline il padre sta per morire e lui deve assolutamente tornare per assisterlo. In realtà, l’anziano morente non è il padre biologico di Tulgaa, ma un buon uomo che l’ha cresciuto mentre da bimbo e poi da ragazzo trascorreva la sua vita tra yurte, larici e pascoli. Venuto a mancare il vecchio padre, Tulgaa deciderà di concludere come promesso il raccolto di fieno prima dell’ultima luna piena di settembre. È tra colline e campi che il protagonista incontra il decenne Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), piccola furia animalesca che già cavalca come un pazzo e conosce molti segreti del lavoro nei campi. Ne sa talmente tante che finirà per dare consigli di falciatura e pesca a quel marcantonio di Tulgaa. Ma Tuntuulei è pure lui orfano di padre e con una madre lontana, oltreché analfabeta. Tra i due prima è scontro, poi incontro, scoperta, sintonia totale e sincera amicizia. Fino a quando il raccolto si concluderà e Tulgaa dovrà lasciare colline e Tuntuulei al loro destino.

Orchestrato sulla preponderanza di esterni giorno che variano dai campi lunghissimi a carrellate laterali per seguire senza infingimenti le cavalcate insieme dei due protagonisti, L’ultima luna di settembre si trasforma in un virtuoso e sciolto passaggio di consegne verso un’età adulta ancora mancante per i due protagonisti. Tulgaa diventa quel padre che non è mai stato; Tuntuulei acquisisce finalmente una figura paterna mai avuta. Nulla di melodrammatico, per carità, ma solo tanta vitalità fanciullesca innestata su un meccanismo naturalmente conservativo per un luogo aspro e solitario, dove non c’è segnale per i telefonini e dove i cavalli corrono liberi come in Balla coi lupi. La coppia di protagonisti funziona assai in chiave protettiva modello Monello chapliniano (Tuntuulei è un piccolo irrequieto sfacciatello dal cuore d’oro) e la regia non bada a fronzoli, abbandonandosi a quello che ha davanti all’obiettivo, senza troppo cercare l’angolazione migliore o il movimento di macchina spettacolare. L’ultima luna di settembre è di quelle storie che funzionano anche senza una potente regia. E possibilmente senza il doppiaggio italiano che qui eccede oltretutto cancellando quasi del tutto la pista del sonoro originale compresi molti esplicativi rumori d’ambiente.

L’ultima luna di settembre, dalla Mongolia un’opera filosoficamente no global
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