Cinema

L’ultima luna di settembre, dalla Mongolia un’opera filosoficamente no global

“La mia lettera d’amore al patrimonio culturale mongolo”. Il regista e attore protagonista Amarsaikhan Baljinnyam descrive così il suo film L’ultima luna di settembre, nelle sale italiane dal 21 settembre grazie ad OfficineUbu. È curioso che quando si tratta di paesi lontani, di popolazioni e tradizioni pressoché sconosciute (qui quella della Mongolia) che cercano di mantenere intonsa la propria identità storica, dall’Occidente ipermodernista e globale sia tutto un frinire di entusiasmi. Mentre se qualche paese occidentale cerca di mantenere briciole di tradizioni proprie è tutto un dramma di bieco conservatorismo. Certo, L’ultima luna di settembre è un’opera filosoficamente no global, inerpicata prima di tutto sul rapporto tra uomo e natura, di una vocazione antitecnologica e autodafé.

Mentre si trova a lavorare in una grande città, Tulgaa (Baljinnyam) viene raggiunto da una rocambolesca chiamata allo smartphone. Dal lontano villaggio sulle alte colline il padre sta per morire e lui deve assolutamente tornare per assisterlo. In realtà, l’anziano morente non è il padre biologico di Tulgaa, ma un buon uomo che l’ha cresciuto mentre da bimbo e poi da ragazzo trascorreva la sua vita tra yurte, larici e pascoli. Venuto a mancare il vecchio padre, Tulgaa deciderà di concludere come promesso il raccolto di fieno prima dell’ultima luna piena di settembre. È tra colline e campi che il protagonista incontra il decenne Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), piccola furia animalesca che già cavalca come un pazzo e conosce molti segreti del lavoro nei campi. Ne sa talmente tante che finirà per dare consigli di falciatura e pesca a quel marcantonio di Tulgaa. Ma Tuntuulei è pure lui orfano di padre e con una madre lontana, oltreché analfabeta. Tra i due prima è scontro, poi incontro, scoperta, sintonia totale e sincera amicizia. Fino a quando il raccolto si concluderà e Tulgaa dovrà lasciare colline e Tuntuulei al loro destino.

Orchestrato sulla preponderanza di esterni giorno che variano dai campi lunghissimi a carrellate laterali per seguire senza infingimenti le cavalcate insieme dei due protagonisti, L’ultima luna di settembre si trasforma in un virtuoso e sciolto passaggio di consegne verso un’età adulta ancora mancante per i due protagonisti. Tulgaa diventa quel padre che non è mai stato; Tuntuulei acquisisce finalmente una figura paterna mai avuta. Nulla di melodrammatico, per carità, ma solo tanta vitalità fanciullesca innestata su un meccanismo naturalmente conservativo per un luogo aspro e solitario, dove non c’è segnale per i telefonini e dove i cavalli corrono liberi come in Balla coi lupi. La coppia di protagonisti funziona assai in chiave protettiva modello Monello chapliniano (Tuntuulei è un piccolo irrequieto sfacciatello dal cuore d’oro) e la regia non bada a fronzoli, abbandonandosi a quello che ha davanti all’obiettivo, senza troppo cercare l’angolazione migliore o il movimento di macchina spettacolare. L’ultima luna di settembre è di quelle storie che funzionano anche senza una potente regia. E possibilmente senza il doppiaggio italiano che qui eccede oltretutto cancellando quasi del tutto la pista del sonoro originale compresi molti esplicativi rumori d’ambiente.