Diego Rossetti, figlio di Renzo e presidente della Fratelli Rossetti S.p.a., ripercorre con noi la storia dell’azienda che conduce assieme ai fratelli Luca e Dario e che quest’anno festeggia il suo settantesimo anniversario durante la Settimana della Moda di Milano
Nei capannoni di Parabiago il tempo sembra essersi fermato al 1953, quando Renzo Rossetti avviò quella che oggi è la Fratelli Rossetti S.p.a.: non solo le tecniche e le fasi di produzione delle scarpe sono ancora le stesse di allora (cinque: taglio, giunteria, montaggio e finissaggio e messa in posa della suola) ma persino i macchinari. Da qui escono ogni anno oltre 400mila paia di scarpe, dirette in tutto il mondo e apprezzate e richieste da molte celebrità, da Sylvester Stallone a Dustin Hoffman (“venne nel nostro negozio di New York da solo, fece il suo shopping e insistette per pagare”) e Elton John (“per lui abbiamo realizzato appositamente dei mocassini rossi in pelle di coccodrillo, se ne era innamorato”). Il segreto del successo sta nell’artigianalità della produzione e nella capacità di coniugare tradizione e innovazione, eleganza ed avanguardia. Come? Ce lo spiega Diego Rossetti, figlio di Renzo e presidente della Fratelli Rossetti S.p.a., ripercorrendo con noi la storia dell’azienda che conduce assieme ai fratelli Luca e Dario e che quest’anno festeggia il suo settantesimo anniversario durante la Settimana della Moda di Milano.
Era il 1953 quando, a Parabiago, suo padre Renzo fondò quella che oggi è la Fratelli Rossetti. Com’è nato l’amore per le scarpe?
“Mio papà aveva quattro fratelli e venne chiamato dal più grande a Parabiago. Qui, conobbe un ragazzo, che aveva un parente calzolaio. Da quell’incontro iniziò ad appassionarsi al mondo delle calzature. Partì creando scarpe sportive, in particolare quelle per il pattinaggio, poi passò a quelle da passeggio. All’inizio per lui fu dura, soprattutto a livello economico, non aveva un capitale iniziale quindi ogni guadagno lo investiva per acquistare le materie prime. Così nacque in lui un senso di prudenza negli affari che ha trasmesso anche a noi figli”.
In cosa suo padre è stato lungimirante?
“Ai tempi, le scarpe erano prive di stile. L’intuizione di mio padre fu quella di creare un accessorio di qualità da abbinare ai vestiti. Entrò nel giro dei sarti romani, che ai tempi sfilavano a Sanremo. Fu la scintilla che scattò in lui, la prima pietra miliare. Guardando una sfilata di moda, ad esempio, gli venne l’idea di togliere far togliere i calzini ai modelli che nel look non indossavano la cravatta o la canottiera, creando una scarpa foderata di tessuto, la ‘Rossetti Yacht’. Quel modello è oggi ancora in collezione, pressoché identico a quella di 60 anni fa”.
Gli anni ’70 sono gli anni delle collaborazioni: Renzo Rossetti iniziò a lavorare con nomi del calibro di Armani, Valentino, Pierre Cardin, Yves Saint Laurent, Mila Shön, Gucci, Karl Lagerfeld, Dumas Hermès e addirittura Ferragamo, il “calzolaio” per eccellenza.
“Quello fu il vero punto di svolta per l’azienda perché all’epoca gli stilisti non badavano alle scarpe. Fu lui a proporre loro una collaborazione, offrendosi di realizzare per loro scarpe da abbinare ad ogni look, in cambio di input stilistici che avrebbe poi usato nella sua collezione. Fu anche trampolino di lancio per le scarpe da donna: inizialmente infatti, le collezioni femminili non erano molto comprese dal pubblico perché la scarpa da donna veniva concepita solo come quella con il tacco. Invece, gli stilisti sdoganarono il mocassino e le scarpe basse, rivoluzionando lo stile di allora”.
Così sono nate le icone. Modelli vostri che, anche oggi, contraddistinguono in tutto il mondo la “Fratelli Rossetti”.
“Esatto, primo su tutti il mocassino “Brera”. Mio padre lo creò dopo aver visto in America un laccio particolare, tipico della moda western, e decise di portarlo anche in Italia. Quando fu presentato, non riscosse il successo commerciale: ci volle del tempo perché venisse capito. Allo stesso modo ha ideato gli stivali con la staffa ispirata allo sperone dei Cowboy: fu copiato poi da tutti. E ancora, i modelli con i fiocchetti e le nappine, che ancora oggi sono gli stessi di sessant’anni fa”.
Qual è il suo primo ricordo legato all’azienda? Ci racconta qualche aneddoto?
“Mi ricordo quando arrivavano gli stilisti e poi mio padre li portava a casa nostra, invitandoli a pranzo. Erano persone molto affascinanti, che esulavano dalla nostra cerchia tradizionale di amici e conoscenze a Parabiago. Mi colpì, quindi, che ci potesse essere un mondo di persone così colte, così attente al modo di vestire. L’impatto col mondo della moda mi affascinò fin da piccolo e la conoscenza di questi personaggi fu per me come un’illuminazione. Vidi coi miei occhi l’esistenza di un mondo diverso dal nostro e ne rimasi attratto”.
Da bambino, come percepiva il lavoro di suo padre? Ci racconta qualche aneddoto?
“Mio papà era totalmente assorbito dal lavoro. Faceva di tutto, anche perché non aveva una vera e propria organizzazione che lo supportasse. Mi ricordo quando nel ‘65 venne aperta la nuova fabbrica, con uno sforzo economico non indifferente. Si passò dal vecchio stabilimento ad una struttura – anche sovradimensionata – rispetto a ciò che si faceva. Un giorno, ci mise su un carrellino della manovia, schiacciò un bottone e il nastro trasportatore si avviò. Per noi era come un trenino, era un gioco. Ecco, è il primo ricordo che ho di mio papà al lavoro”.
Come riuscì suo papà a coniugare la sua visione imprenditoriale, capendo che la calzatura sportiva fosse un “un mercato troppo di nicchia”, aprendosi all’estero, come ad esempio, New York?
“Il merito qui in parte è anche il mio, perché quando facevo l’università, mio papà mi chiamava per aiutarlo nelle fiere, anche perché ero l’unico che all’epoca parlava inglese. Mio padre ebbe l’intuizione dei negozi, aprendo i primi rispettivamente a Genova e a Venezia. Capì che quella era la strada per arrivare direttamente al pubblico oltrepassando lo scetticismo dei rivenditori. Quando entrai scalpitante in azienda, insistetti per andare a tutti i costi a New York e mio padre mi sostenne nell’idea, aprendo il primo punto vendita negli Usa. Dopo New York, seguì Londra e poi, passo dopo passo, tutto il resto del mondo”.
Negli anni siete stati d’eccellenza per il Made in Italy. Avete avuto clienti illustri: ci può raccontare qualche “capriccio da star”, qualche richiesta particolare che avete esaudito?
“Ricordo Elton John che, in negozio a Venezia, vide una scarpa di coccodrillo rosso, fatta senza troppa convinzione. S’innamorò talmente del prodotto, tanto da volerne 5 paia. Un’altra volta, – ero bambino ma lo ricordo ancora – arrivò un cliente importante di Roma, che aveva, a sua volta, un suo cliente importante, un cacciatore. Si presentò con l’orecchio di un elefante che questi aveva cacciato durante una battuta in Africa: pretendeva che mio padre gli facesse degli stivali da caccia proprio con quella pelle d’elefante. Ebbene, non so come ma mio padre lo accontentò. Io ero perplesso ma il cliente ne fu entusiasta. Erano altri tempi, ovviamente”.
Quando è arrivato il momento di “raccogliere il testimone”, voi figli, come siete riusciti a coniugare innovazione e tradizione?
“Quando mio papà si è ritirato, io e i miei fratelli, abbiamo cercato di strutturare l’azienda con dei manager, che fino a quel tempo non c’erano mai stati, perché i manager eravamo noi. Abbiamo quindi assunto ruoli maggiormente istituzionali e gestionali, cercando di strutturarci in maniera più solida. Pensavamo ai compiti, alle procedure, accantonando una gestione che potesse essere troppo familiare”.
Suo padre, che era abituato ad essere in prima linea per l’azienda, come ha vissuto la pensione?
“Si è inizialmente ritirato dal punto di vista operativo, rimanendo però sempre vicino all’azienda. Il passaggio di testimone è avvenuto con la sua ‘benedizione’, nonostante fosse preoccupato che l’azienda stesse intraprendendo una strada per lui del tutto nuova. Lui, che per tutta la vita aveva avuto sempre un’attenzione maniacale ai costi, quando vide l’ingresso di figure professionali e manager, temette che appesantissimo un po’ troppo l’assetto. Ma fu un rischio cruciale per fare un salto di livello”.
Negli ultimi anni, pensando specialmente alla collezione coi nodi, avete cercato e recuperato tutta una serie di lavorazioni, altamente artigianali, molto particolari. Come nascono queste lavorazioni e, soprattutto, come trovate gli artigiani che possono portare avanti questo tipo di know-how?
“Questo è un mestiere che dà grandissime soddisfazioni eppure non lo vuole fare più nessuno, perché oggi fare l’operaio e lavorare in fabbrica, è considerato un lavoro di serie B. I giovani vogliono fare tutti gli stilisti, ma quella è la punta dell’iceberg. Sotto c’è tutto un mondo fatto di persone e di professioni molto specializzate che fanno sì che quello che lo stilista concepisce come idea diventi un prodotto di altissima qualità. Io ho 25o dipendenti, sono artigiani che custodiscono un know how che è il nostro vero tesoro. Molto spesso infatti le idee migliori arrivano proprio dai nostri artigiani. La lavorazione con i nodini, ad esempio, è nata proprio così. Anche certe cuciture, certi ricami, tante volte ci vengono proposti dalle nostre artigiane piuttosto che dallo stilista. È difficile che realizziamo decorazioni fini a sé stesse, ognuna ha sempre la propria radice nella nostra tecnica e conoscenza”.
Come si è voluto il mestiere negli ultimi anni?
“Oggi ci sono dei mezzi che ti favoriscono ad arrivare nei paesi più lontani, anche in maniera non fisica, permettendoti di raggiungere determinati clienti, che già sai potrebbero essere interessati al prodotto. Sicuramente la distribuzione e il customer service sono cambiati molto con la rivoluzione digitale: si fa molta fatica a starci dietro. Non si fa in tempo ad acquisire nuove competenze che queste rischiano di essere già superate. Sono in atto continui cambiamenti, anche nella mentalità, che saranno epocali”.
Oggi ci sono una crescente consapevolezza e attenzione alla sosteniobilità: come si concilia l’attenzione all’ambiente con l’industria calzaturiera?
“Non dimentichiamoci che la pelle che noi usiamo è uno scarto dell’industria alimentare. Quindi già partiamo, per così dire, con un riciclo. Poi, noi studiamo il taglio in modo da avere meno scarto possibile e, in ogni caso, questi avanzi vengono a loro volta riutilizzati per produrre succedanei del cuoio che usiamo per le suole. La cosa più inquinante è la tinteggiatura delle pelli: l’industria conciaria è potenzialmente devastante per l’ambiente ma in Italia oggi abbiamo delle normative rigide che impediscono che ciò accada e noi scegliamo solo fornitori italiani perché all’estero è tutt’altra storia”.
I vostri primi settant’anni li abbiamo raccontati, come vede i prossimi settant’anni?
“Ci attendono grandi sfide, anche perché il mercato internazionale è molto cambiato negli ultimi trent’anni. Ci troviamo a competere con dei giganti del campo della moda, che hanno grosse risorse economiche, per noi ineguagliabili. Abbiamo dovuto chiudere il nostro negozio di via Montenapoleone a Milano proprio per questo: è arrivato un grosso brand che ha offerto per l’affitto del locale una cifra esagerata pur di averlo e noi non abbiamo potuto farci niente. Per questo noi dobbiamo continuare a ragionare concentrandoci sulla nostra nicchia di clientela, cogliendo e sfruttando le varie opportunità ma mettendo sempre al centro il cliente”.
Voi siete cresciuti con il modello di vostro padre. Avete visto e vissuto il massimo momento d’espansione dell’azienda. I vostri figli cos’hanno in mente per il futuro? Saranno la terza generazione?
“I nostri figli stanno tutti facendo esperienze esterne, anche perché siamo consapevoli che l’azienda debba avere un ruolo sociale prima che familiare. Se poi le due cose si coniugano, ancor meglio, ma non l’abbiamo fatta per i nostri figli. In realtà non l’abbiamo neanche fatta, l’abbiamo portata avanti. Pensiamo sia un bene da preservare per la società e per la comunità in cui viviamo, non un ‘affare di famiglia’”.